Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 25/8/2015, 25 agosto 2015
EXPM2015
Ogni volta che Sabino Cassese scrive un editoriale sul Corriere, cresce il sollievo al pensiero che non è più giudice costituzionale e che la sua scalata al Quirinale, sponsorizzata da Napolitano e dai poteri retrostanti, è miseramente fallita. Onusto di titoli accademici e sottotitoli politici, il professor Cassese appartiene a quella schiera di costituzionalisti che – come disse Gustavo Zagrebelsky al Fatto – detestano la Costituzione e – aggiungiamo noi – fanno carriera sputandoci sopra. Un po’ come se un teologo passasse il tempo a bestemmiare. Ieri l’insigne giurista ci ha spiegato, dall’alto della sua somma sapienza, perché la giustizia è allo sfascio. E ha messo insieme il catalogo completo di tutti i più vieti, banali e farlocchi luoghi comuni sparsi sull’argomento dai peggiori politici dell’ultimo trentennio. Fra questi, l’andazzo di incolpare i magistrati per il dilagare della criminalità organizzata e anche per la crisi della giustizia. Che, a suo illuminato parere, “non sta tanto nell’enorme numero di cause non decise e nei tempi dei processi, ma nel fatto che tutto ciò ha prodotto una vera e propria fuga dalla giustizia, a causa della sfiducia nei suoi tempi”.
In questa frase assurda e illogica c’è tutto il Cassese-pensiero. Se la gente fugge dalla giustizia per i tempi biblici, come si fa a dire che il problema non sono i tempi biblici? Ma, se fosse vera questa fuga dalla giustizia, l’Italia dovrebbe avere pochi processi, invece detiene il record mondiale per il numero di cause penali e civili (6 milioni l’anno, più gli arretrati): dunque, senza la presunta fuga dalla giustizia, le cause sarebbero ancora più numerose e i loro tempi ancor più biblici. Ergo, con buona pace di Cassese, il problema sono proprio i processi troppo numerosi e troppo lunghi. E la soluzione è dissuadere la gente dal denunciare fatti bagatellari, ma soprattutto disincentivare le impugnazioni pretestuose e limitare i dibattimenti rendendo convenienti i riti alternativi: patteggiamenti e abbreviati. I rimedi sono stranoti: abolire l’appello, filtrare i ricorsi in Cassazione, consentire la reformatio in peius (l’aumento della pena in caso di impugnazione) ecc. Di questo però Cassese non parla, perché per lui il problema sono soprattutto i magistrati: arrestano troppa gente, fanno troppe intercettazioni, troppo spesso parlano e si candidano e – pensate un po’ – “dettano l’agenda della politica e stabiliscono i criteri della politica industriale”. Cioè osano indagare anche sui reati dei politici e degli industriali.
Per evitarlo, il Csm dovrebbe “fissare linee guida non vincolanti (sic, ndr) come il Dipartimento di giustizia Usa”. Qualche vecchio e polveroso conoscitore della Costituzione potrebbe obiettare che negli Usa la giustizia è sottoposta al governo, in Italia è autonoma e indipendente da ogni altro potere. Ma queste, per l’ex giudice costituzionale, sono quisquilie: infatti vorrebbe sventrare la Carta separando le carriere perché “accusa e giudizio sono mestieri diversi”. E pazienza se gli organismi europei additano il modello italiano – carriera unica, scambio tra le funzioni e azione penale obbligatoria – come un modello da imitare e una garanzia di indipendenza per pm e giudici. Naturalmente Cassese lo sa benissimo. Ma si fa interprete di quella “giustizia sostenibile”, cioè flessibile, disponibile, malleabile, à la carte tanto cara ai poteri forti, allergici al controllo di legalità, in nome degli interessi politici e aziendali. Un politico ruba? Una fabbrica inquina e uccide? Il giudice li lasci in pace, se no “detta l’agenda” alla politica e all’impresa.
Quest’aberrazione criminogena e incostituzionale si chiama “modello Expo”. Il pm Robledo indaga sugli appalti truccati della kermesse milanese? Esiliato. Il suo capo Bruti Liberati gli scippa le indagini che gli spettavano in base alle regole da lui stesso fissate e ne dimenticava una in cassaforte? Salvato dal Csm. E così, come per incanto, da quando Expo è stata inaugurata, in Procura non muove più foglia. Il procuratore fa sapere che prorogherà di un mese il suo pensionamento, da metà ottobre a metà novembre, “fino alla conclusione di Expo 2015, l’evento che ha visto un impegno particolare dell’ufficio e mio personale”. Quale impegno? Che c’entra Expo con la carriera di un pm che dovrebbe indagare e basta? Domande imbarazzanti, specie dopo che i magistrati di Brescia hanno archiviato l’inchiesta su Bruti pur avendo accertato che “alcune remore del procuratore appaiono caratterizzate da valutazioni di natura squisitamente politica”. E dopo che Renzi, dal Giappone, ha inviato a Bruti un bel bacione che qualunque magistrato avrebbe preso come un’offesa sanguinosa e respinto al mittente: “L’Expo non doveva esserci, ma si è fatto grazie a Cantone, a Sala e alla Procura di Milano che ringrazio per aver gestito la vicenda con sensibilità istituzionale”. Cosa sarebbe di preciso questa “sensibilità istituzionale” della Procura senza la quale Expo non sarebbe neppure partita? C’entra qualcosa col fatto che delle indagini e degli arresti, prima piuttosto frenetici, non s’è più saputo nulla dall’inaugurazione del 1° maggio? Per carità, può darsi che tutti i reati commessi su Expo siano già stati scoperti e, da quella data, non ne siano emersi altri.
Speriamo. Certo, se alla chiusura di Expo il 31 ottobre dovessero ripartire le indagini e gli arresti, qualcuno dovrebbe spiegare in base a quale Costituzione l’obbligatorietà dell’azione penale e l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge siano state sospese per sei mesi. E, in quel caso, tornerebbe utile l’articolo di Cassese. Come Tom-Tom.