Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  agosto 25 Martedì calendario

MOLTI ENTI, POCHI CONTROLLI: COSI’ 9 CONDANNATO SU 10 SALVANO GLI ECOMOSTRI

«Non è la prima volta che si demolisce dopo decenni. E purtroppo non sarà l’ultima». Aldo De Chiara è il magistrato italiano più impegnato sull’abusivismo edilizio. A lungo a Napoli, ora a Salerno. E ci spiega perché è così difficile buttare giù gli ecomostri illegali che continuano a spuntare, 26 mila ogni anno a dispetto della crisi.
Molti passano inosservati. Qualcuno viene segnalato alla Procura. Il pm apre un fascicolo. E comincia una corsa contro il tempo, perché l’orologio inesorabile della prescrizione s’è messo in moto quando l’edificio è stato completato, non quando è stato scoperto. Per il reato edilizio, la prescrizione spira dopo cinque anni, se c’è una violazione paesaggistica in un’area protetta sette anni e mezzo.
Il processo
L’ipotesi peggiore è: reato commesso, ma prescritto. L’imputato la fa franca, ma l’abuso accertato andrebbe demolito. In questo caso, la legge impedisce al giudice di procedere, perché manca una sentenza di condanna. Ma obbliga a farlo Comuni, Regione, soprintendenze ed enti Parco, sia nazionali che locali. Nella realtà, senza quello che De Chiara chiama gentilmente «il pungolo giudiziario», nessuno si muove. I politici locali guardano al consenso e lasciano le carte nei cassetti, salvo rare eccezioni (come negli anni ’80 la giunta Valenzi a Napoli).
E se invece, come nel caso di Agrigento, si batte sul tempo la prescrizione arrivando a una sentenza di condanna? Qualche speranza di demolire esiste, perché dal 1985 i politici hanno affidato la questione anche ai magistrati. Ma la strada è tutt’altro che tortuosa.
La cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza trasmette l’estratto al pm che ne deve curare l’esecuzione. Dovrebbe farlo in 5 giorni, ma possono passare mesi. Ricevuto il documento, il pm lo registra in un apposito Registro esecuzioni e sanzioni amministrative. Quindi deve ingiungere al condannato la demolizione. In genere entro 60 giorni.
Tutto fermo
I casi di demolizione per opera dell’autore dell’abuso sono rarissimi. Allora che si fa? Il pm deve accertare l’inadempienza e non può farlo da solo. Ha bisogno di una relazione della polizia giudiziaria. Altri mesi, forse anni. Poi deve accertare che non sia sopravvenuto un condono: supplemento d’indagine, altri mesi se non anni. Infine nomina un perito, che deve individuare esattamente l’immobile da demolire, stabilire modalità e costi.
La sua consulenza viene depositata non prima di 90 giorni. Il pm la studia, mette insieme tutte le carte e le trasmette al Comune, invitandolo a procedere. Sono passati già alcuni anni dalla sentenza definitiva, se il pm e la polizia giudiziaria sono stati mediamente solerti e non sono insorti ostacoli (magistrato trasferito, carte che non si trovano...). Ora tocca al Comune, e qui la via della demolizione diventa ancor più accidentata: niente tempi definiti, niente controlli, niente sanzioni. In Comune hanno due strade: demolire con soldi propri (ma i sindaci lamentano di non averne, né li chiedono al ministero quando potrebbero) o chiedere un mutuo alla Cassa Depositi e Prestiti. Nella maggior parte dei casi, senza pungolo giudiziario, non fanno niente come dimostra il caso Agrigento. Quando si muovono, passano altri anni. Il Comune scrive alla Cassa, che risponde chiedendo altre carte, che il Comune deve trovare e allegare, ma non trova oppure sì ma non vanno bene (avevamo richiesto il foglio verde, ci avete mandato quello verdino...) e allora parte una nuova richiesta cui segue una nuova istruttoria. E così via in un arabesco burocratico senza fine.
Le diffide
Dopo dieci anni l’ecomostro è ancora al suo posto, mentre gli incartamenti fanno su e giù per l’Italia. E il pm? A questo punto della faccenda, gran parte dei magistrati si sono arresi. Chi per pigrizia, chi per scarso interesse alle questioni ambientali, chi perché ritiene di dover utilizzare il tempo e il personale (scarsi) per nuove indagini, chi per evitare guai (minacce, problemi di ordine pubblico, proteste politiche). Se è ancora in quell’ufficio e ha ancora voglia di occuparsene, il pm manda la polizia giudiziaria ad accertare che l’abbattimento non è stato eseguito. Poi chiede conto al Comune, che risponde instaurando un nuovo canale di corrispondenza.
Se il pm è particolarmente tignoso, mette in mora il Comune. Ignazio Fonzo, procuratore aggiunto di Agrigento, ha dovuto mandare tre note e una diffida, rilevando «stupefatto» un «perdurante ostinato ritardo» e minacciando di denunciare tutti per omissione di atti di ufficio, e solo così ha ottenuto soddisfazione. De Chiara, anni fa, accusò di favoreggiamento i funzionari comunali.
Vittoria?
Con gli atti formali o con la moral suasion, il pm agguerrito induce il Comune a muoversi. Sempre che non spuntino cavilli dei proprietari, barricate popolari, famiglie asserragliate o addirittura, come a Ischia, malati terminali spostati in barella da una casa all’altra, per fermare le ruspe.
Sono passati anche quindici anni, quando finalmente si arriva alla demolizione. Vittoria di Pirro perché riguarda, calcola Legambiente, solo il 10% degli abusi accertati con sentenza penale definitiva. Eppure, spiega De Chiara, basterebbe una leggina di due righe per risolvere la questione, consentendo ai pm di eseguire autonomamente le demolizioni come per ogni altra sentenza di condanna, senza dover confidare nella buona volontà dei Comuni. «Ma su questo, da anni, c’è un silenzio assordante».