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 2015  agosto 22 Sabato calendario

MONETE E PREZZI, LA FED PUO’ EVITARE LA TEMPESTA PERFETTA

Il peso dell’Occidente non è più quello di una volta. Il prezzo da pagare è questa “tempesta perfetta” che spaventa i mercati. Triplice allarme: Frenata dei Paesi emergenti, crollo del petrolio che trascina con sé tutte le commodity, svalutazioni a catena. E’ lo scenario che affonda le Borse e colpisce la fiducia degli investitori, con fughe di capitali da tutte le piazze a rischio. Il colpo di grazia alla fine potrebbe darlo la Federal Reserve americana, quando deciderà di alzare i tassi. Proprio per questo aumentano le incertezze ai vertici della banca centrale Usa, che segue da vicino gli sviluppi della crisi venuta da fuori. L’aspetto-chiave è questo: «Crisi venuta da fuori». Da quella che un tempo si sarebbe definita la periferia del sistema. E’ un rovesciamento di ruoli. Per gli ultimi vent’anni la crescita globale era stata trainata dagli “altri”: gli emergenti, Cina in testa ma non sola. Si dava per scontato che fosse una crescita disordinata, tumultuosa, con alti e bassi, episodi di crisi. Ma non che si ribaltassero le parti in modo così brutale. Quel che sta accadendo oggi, è che “gli altri” sono diventati di colpo la zavorra. Frenano Cina, Brasile, Russia, Turchia, Colombia. L’acronimo Brics e varie altre sigle coniate per abbracciare e descrivere le nuove frontiere dello sviluppo, diventano etichette del pericolo, luoghi da cui fuggire, ritirare i capitali in fretta.
Bisogna scordare tutti gli shock precedenti nati alla periferia: le crisi latinoamericane degli anni Ottanta, quella asiatica del 1997, quella russa del 1998. Accadevano in un mondo diverso, irriconoscibile, dove ancora il baricentro della ricchezza mondiale era saldamente dentro il club dei vecchi ricchi, la Trilaterale Usa-Ue-Giappone. Oggi gli emergenti pesano per metà del Pil globale. Il prezzo da pagare per questo mondo più “equilibrato” o paritetico, è che i loro problemi possono infliggere un danno molto superiore, il contagio è virulento. Questo aiuta a capire anche il male della deflazione. Si dice deflazione, per indicare il contrario dell’inflazione: un calo generalizzato dei prezzi. Al momento il vento della deflazione soffia poderoso su tutte le materie prime. La più importante, il petrolio, ha perso il 60% del suo valore in dollari rispetto ai massimi del 2014.
Seguono a ruota metalli, minerali, derrate agricole. A un’osservazione superficiale, dovrebbe essere una buona notizia: tutto costa meno, il costo della vita scende, il potere d’acquisto sale, i consumatori stanno meglio. Ma per ogni prezzo che scende c’è un reddito decurtato: quello dei produttori. Agricolture latinoamericane e africane, industrie minerarie dal Canada all’Oceania, più di metà del pianeta soffre la deflazione come un impoverimento netto. Quindi importa meno da noi. Quei nuovi mercati di sbocco dove i nostri produttori avevano trovato un traino per compensare la debole domanda dei consumatori occidentali, ora s’inaridiscono per mancanza di risorse.
Lo stesso meccanismo aiuta a capire l’aspetto perverso della svalutazione cinese, lanciata l’11 agosto e probabilmente solo agli inizi. In una fase di deflazione, la Cina sta ricorrendo a una delle vie di fuga più antiche e più dannose. Qualcosa di simile accadde negli anni Trenta della Grande Depressione: a un certo punto ogni Paese cercava di scaricare la sua crisi sui vicini, o svalutando la moneta o ricorrendo al protezionismo. Fu chiamata la politica del “beggar-my-neighbor”: chiedo l’elemosina al mio vicino. Ma una svalutazione competitiva può funzionare a meraviglia quando la domanda globale cresce, allora il singolo Paese che svaluta riesce ad esportare di più perché i suoi prodotti costano meno sui mercati esteri. Ma se la spesa degli altri Paesi è in ritirata, la svalutazione aggiunge un altro shock deflazionistico, e aiuta poco anche il Paese che la usa. La Cina ci sta provando ma subito la seguono a ruota le monete emergenti: il real brasiliano e il rublo russo, la lira turca e il rand sudafricano, è una spirale delle svalutazioni che si sta allargando fino al Vietnam e al Kazakhstan. I benefici si autodistruggono. Questo spiega anche la tensione tra Fondo monetario internazionale e Cina: Fmi non crede alla versione ufficiale secondo cui la svalutazione cinese è un «passo verso la liberalizzazione dei mercati».