Marcello Bussi, MilanoFinanza 22/8/2015, 22 agosto 2015
PETROLIO, PERCHE’ STARA SOTTO I 40 DOLLARI
Dal 27 novembre 2014, giorno in cui l’Opec ha deciso, sotto la spinta dell’Arabia Saudita, di non aumentare la produzione di petrolio, il prezzo del barile Wti è sceso da 71 a 40 dollari. Venerdì 21 ha sfondato al ribasso quest’ultima soglia e sembra destinato a non risalire. Lo prevede per esempio il governo del Kazakhstan, il cui bilancio 2016 sarà basato su un prezzo del petrolio fra i 30 e i 40 dollari.
Bisogna ricordare che nel novembre scorso la mossa dell’Opec venne interpretata come un favore degli alleati sauditi agli Stati Uniti di Barack Obama: il mese precedente la Federal Reserve aveva terminato la terza fase del Quantitative easing e quindi era opportuno un nuovo stimolo all’economia di comprovata efficacia e il calo dei pezzi del petrolio era perfetto. Inoltre la Casa Bianca voleva mettere alle corde Vladimir Putin per punirlo a seguito dell’annessione della Crimea e dell’aiuto ai ribelli del Donbass, la regione orientale dell’Ucraina, e spingere gli ayatollah iraniani a firmare l’accordo sul nucleare. All’epoca qualcuno aveva però avanzato l’ipotesi che in realtà la mossa saudita fosse diretta contro i produttori di petrolio e shale gas statunitensi per metterli fuori dal mercato, visti i loro alti costi di produzione. Oggi i fatti dicono però che i produttori americani di shale hanno resistito, mentre la recessione in Russia si è aggravata e l’Iran ha firmato l’accordo sul nucleare.
Washington insomma ha centrato i suoi obiettivi senza mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’industria dello shale. Mentre a essere in difficoltà è l’Arabia Saudita. Il calo dei prezzi è stato probabilmente superiore alle aspettative di Riyad, dove le entrate petrolifere rappresentano il 90% del bilancio statale. Se a questo si aggiungono le spese per l’intervento militare nello Yemen, si capirà che la situazione non è affatto rosea. Al punto che dopo otto anni di assenza dai mercati Riyad è tornata a emettere bond, mentre si moltiplicano le voci di una svalutazione del riyal, ora ancorato al dollaro.
E le cose sembrano destinate a peggiorare, visto che ci sono le premesse per una caduta non momentanea del greggio sotto i 40 dollari al barile. La prima ragione sta nella stagnazione della domanda, indotta prima di tutto dalla frenata dell’economia cinese. A questo, come ha osservato Naeem Aslam, capo-analista di Ava Trade, si aggiunge «la guerra delle monete sui mercati emergenti». Entrambi i fattori «hanno un impatto negativo sulla domanda e gli investitori temono che questo la deprimerà ulteriormente».
Se poi la crisi cinese si rivelasse più grave del previsto, lo spettro della recessione potrebbe tornare a incombere anche su Eurolandia e a quel punto non ci sarebbero limiti alla caduta del greggio.
Anche scartando scenari così negativi ci sono altri fattori che da soli basterebbero a schiacciare i prezzi sotto i 40 dollari. Prima di tutto il ritorno del petrolio iraniano a seguito dell’accordo sul nucleare. L’intesa comporta la fine delle sanzioni all’Iran passo dopo passo, ognuno dei quali sarà sottoposto a verifiche. Quindi ancora non si sa bene quando il greggio degli ayatollah tornerà a essere venduto sui mercati internazionali, ma le quotazioni cominciano già a darlo per sicuro. Teheran sostiene di essere in grado di produrre un milione di barili al giorno nel giro di pochi mesi dalla caduta delle sanzioni.
Il terzo fattore riguarda la concorrenza tra Paesi produttori, dato che la caduta dei prezzi rende ancora più indispensabile per ognuno di loro aumentare le proprie quote sui vari mercati nazionali. E così si aumenta la produzione alimentando un circolo virtuoso per i consumatori. A luglio la produzione Opec ha superato i 32 milioni di barili al giorno e quella di Arabia Saudita e Iraq ha toccato livelli record.
Un taglio della produzione, poi, darebbe maggior respiro ai produttori di shale negli Stati Uniti, cosa che nell’Opec nessuno vuole. Produttori di shale che (e siamo al quarto fattore) comunque non hanno affatto chiuso i battenti: le loro estrazioni sono diminuite meno del previsto e nel frattempo i progressi tecnologici hanno reso meno costosa la pratica del fracking.
Il quinto e ultimo fattore contribuirà a mantenere i prezzi sotto i 40 dollari al barile: le attese di un rialzo dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve, destinato a rafforzare ulteriormente il dollaro. E anche se la fine della politica dei tassi zero venisse rinviata a dopo settembre, l’economia Usa resterà comunque quella nelle migliori condizioni di salute e quindi il biglietto verde salirà ancora: visto che è la valuta con cui viene scambiato il petrolio, i prezzi di quest’ultimo scenderanno di conseguenza. (riproduzione riservata)