Francesca Borri, il Fatto Quotidiano 24/8/2015, 24 agosto 2015
BAGHDAD, DOVE L’ISIS HA VOGLIA DI RIVALSA
Se hai trent’anni, qui, conosci solo la guerra. E il resto del mondo, qualsiasi cosa, ti sembra di uno splendore sconfinato. Ali Saheb a ottobre è stato a Roma per una conferenza. Che hai visto di bello?, gli chiedo. Tra il Colosseo e il Vaticano, mi dice: “La metropolitana”. Perché è così, Baghdad. All’improvviso, non senti più niente.
Non vedi più niente.
Ma sono solo sei, sette secondi. Poi, altrettanto all’improvviso, è tutto come prima. Lamiere divelte, cavi elettrici. Questo asfalto sconnesso, costellato di vetri, schegge, intelaiature senza porte, senza finestre. Perché tra il prima e il dopo, a Baghdad, quando esplode una bomba, tra queste case annerite da trent’anni di guerra, di tritolo, non c’è differenza. Solo, adesso, sparsi, mozziconi d’uomo. Stracci di carne. Questo tizzone d’auto che brucia.
Scaraventati a terra
E la vita ha questo modo strano di ricominciare subito, qui – o forse, non interrompersi mai. Sono le 18.17 quando siamo scaraventati a terra, in Saadoun Street, in cui è in corso un pellegrinaggio sciita martellato ogni anno di attentati. Ma dagli altoparlanti, il canto del Corano va avanti, misto alle sirene delle ambulanze. Alle urla di un padre. Si spazza via tutto, rapidi. Al banco alla tua destra già vendono di nuovo aranciate.
Così come si dilegua, rapida, anche l’attenzione del mondo. In rete girano uno, due tweet. Bomba a Baghdad, quattro morti. Sette morti. Nove.
Bilancio finale a Baghdad, dodici morti e venticinque feriti. Dieci minuti, ed è tutto finito.
Aspettiamo la prossima.
Dalle trincee della prima guerra mondiale ai campi di concentramento della seconda, ogni guerra ha la sua icona. Il napalm del Vietnam. I machete del Ruanda, i mortai e i cecchini della Bosnia. L’Iraq è una guerra di Ied, improvised explosive devices. Una guerra di ordigni artigianali. Esplode un’autobomba al giorno, qui. Da anni. E spesso più di una. Colpiscono ovunque. Caffè e mercati, uffici e ministeri, quartieri ricchi e quartieri poveri. Per questo sono il simbolo dell’Iraq di oggi: non sono più furgoncini che si schiantano contro la Zona Verde, contro gli stranieri, l’obiettivo non è più scalzare via gli americani. Riappropriarsi del paese. Ora l’obiettivo, semplicemente, è destabilizzarlo. Tenerlo in ostaggio.
Perché non c’è un fronte, in Iraq. Non c’è alcuna distinzione tra civili e combattenti. Ci sono solo Ied. Ovunque.
In genere semplifichiamo dicendo che il sud è sciita, qui, il centro è sunnita, e il nord è curdo. In realtà ogni città, ogni area dell’Iraq è un misto di varie confessioni, varie etnie. E quindi il 60 percento della popolazione, è vero, è sciita: ma più che una maggioranza e una minoranza, si hanno assemblati di minoranze. E lì dove un gruppo prevale, è per l’effetto di guerre e espulsioni. Di trasferimenti forzati, ritorni impediti – l’omogeneità, cioè, non è naturale, qui: è artificiale. “Per questo”, spiega Ali Saheb, coordinatore dell’Iraqi Social Forum, la rete delle Ong, “delle tante critiche nei confronti degli Stati Uniti, la più diffusa è una: avere introdotto un sistema politico come quello del Libano. Della Bosnia. Un sistema in cui ogni carica, cioè, ogni ruolo, viene assegnato secondo quote più o meno formalizzate. Il capo dello stato deve essere curdo, il primo ministro sciita, il portavoce del parlamento sunnita. Indipendentemente da tutto. Indipendentemente dalla competenza, e soprattutto, dai risultati delle elezioni. Dalla nostra volontà”.
“Per gli americani, al fondo, il regime di Saddam era il dominio di una minoranza sunnita sulla maggioranza sciita. E quindi democrazia significava togliere potere ai sunniti. Ma Saddam fu capace di ordinare persino l’assassinio di suo genero: il suo regime non era questione di sunniti e sciiti, ma di amici e nemici”, dice. “Il problema, qui, è un altro. Chiunque incontri, uno, prima del suo nome, ti dice il nome della famiglia, della tribù a cui appartiene. Il problema, in Iraq, è che nessuno è iracheno”. E in un Paese così, l’esercito, all’improvviso, è stato sciolto per essere rifondato da zero. Con migliaia di uomini lasciati senza stipendio. Senza prospettiva.
Senza nient’altro, in tasca, che un’arma.
L’Isis è questo, in Iraq. Non è, come in Siria, il male minore rispetto a un dittatore – perché poi, dietro la retorica del califfato, gli jihadisti sono profondamente influenzati dai contesti nazionali.
Speranza nel califfato
Qui l’Isis è espressione di umiliazione e frustrazione. E voglia di rivalsa. “Ogni crimine di Saddam, ogni problema dell’Iraq è stato imputato ai sunniti. Indipendentemente da responsabilità e collusioni individuali. L’Isis arriva da qui. Dalla loro emarginazione”, dice Ali Saheb. “A Mosul non vogliono la sharia. Vogliono scuole, ospedali, vogliono un lavoro. Una vita”.
Perché poi l’Iraq è così al collasso che in tanti dormono per strada, la sera. Ma non sono gli sfollati delle mille guerre di questi mesi: dormono vicino ai distributori di benzina per essere i primi della fila, la mattina – c’è benzina solo per i primi dieci, venti clienti, qui.
Perché gli iracheni galleggiano sul petrolio. E però poi non hanno la benzina.
Non hanno l’elettricità.
E però l’attenzione internazionale, al solito, è tutta per il fronte. Per il sangue e la battaglia. Solo che in Iraq, in realtà, non solo non c’è un fronte: non c’è una direzione. Una definizione di vittoria e di sconfitta. Non c’è un campo con o contro Assad, qui. Non ci sono filorussi e filoucraini, serbi e croati, monarchici e repubblicani – né sunniti e sciiti, a guardare in profondità. Ci sono solo mille gruppi armati. Mille Ied.
In teoria, la sicurezza è affidata all’esercito. Che un anno fa, però, davanti all’avanzata dell’Isis, si è sfaldato, 60mila soldati contro 2mila jihadisti, disseminando lungo la strada armi e carrarmati. Gli americani stanno tentando di riorganizzarlo, ma non è una questione militare: il problema è convincere i soldati a rischiare la vita per uno stato discreditato come quello iracheno. Uno stato così inefficiente, così marcio che l’equipaggiamento per le prime 5mila reclute non è mai arrivato a destinazione. Si addestrano urlando Bang Bang.
E fino a oggi, gli americani per l’esercito hanno speso 25 miliardi di dollari.
La voce “sicurezza”, nel bilancio, è superiore a istruzione, sanità e ambiente insieme. Ma i padroni veri, in Iraq, sono i miliziani sciiti. Baghdad, per esempio, ha un sindaco. Ma se chiedi in giro: chi governa?, nessuno capisce la domanda. Se hai un problema, ti rispondono, “chiami qualcuno che conosci”. Per ogni tipo di problema, cioè, sia un furto o l’allaccio alla rete idrica, esistono, diciamo così, dei punti di riferimento. Qui in città in particolare sono due. Le Brigate Badr, guidate da Hadi al-Amiri, la cui specialità è l’omicidio con il trapano. E Asa’ib Ahl al-Haq, la cui specialità invece sono gli attentati alle ambasciate occidentali.
Bande opposte
In mancanza di truppe sul terreno, sono questi i good guys chiamati a sradicare i bad guys dello Stato Islamico. Ad aprile, i cronisti della Reuters hanno filmato la liberazione di Tikrit: due poliziotti arrestano uno jihadista, e in mezzo alla folla in festa, gli tagliano la gola.
Le Forze di Mobilitazione Popolare contano circa 100mila combattenti, e hanno uno statuto indefinibile. Sono state istituite dal governo per rispondere all’avanzata dell’Isis, ma tecnicamente non sono parte dell’esercito. E soprattutto, sono finanziate dall’Iran. Per noi giornalisti, sono “un esercito parallelo”, ma Nibras al-Mamory, addetta stampa del parlamento, mi corregge subito. “Sono gruppi come il Mahdi Army di Moqtada al-Sadr. Se scrivi “esercito parallelo”, sembra che siano gruppi militari. E invece non sono che gruppi criminali”. La fama di Moqtada al-Sadr, in effetti, anima della rivolta contro gli americani del 2003, non sembra essere legata a virtù militari, né a sagacia politica. Da giovane, era soprannominato “il mongoloide”.
Per gli iracheni, i miliziani sono identici agli jihadisti. Gli sciiti identici ai sunniti. Ugualmente feroci. Tra i profughi trovi chi è in fuga dall’Isis, ma anche, ugualmente disperato, dalla guerra contro l’Isis.
E non solo. Adam Abkar Abdullah ha 60 anni. Difficile non notarlo: è nero. È del Sudan. Si è trasferito qui nel 1989 non nonostante Saddam, ma per Saddam: è un sostenitore delle virtù della dittatura. “Non siamo capaci di vivere senza un comandante in capo, è subito il caos. Non siamo adatti alla democrazia”, dice. “E comunque, tutto è meglio del Sudan”.