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 2015  agosto 23 Domenica calendario

IL BUIO DOPO CALVINO

[Pier Vincenzo Mengaldo] –
Pier Vincenzo Mengaldo è storico della lingua, filologo, critico. Ha studiato Dante, Boiardo, Nievo, Leopardi, Pascoli, Montale. Il passato ma anche la contemporaneità: Calvino, Morante, Primo Levi, Volponi. La narrativa ma anche la poesia (sua una antologia ormai «classica» dei poeti del Novecento). Ha insegnato per anni all’università di Padova, ma diversamente dai suoi colleghi accademici, ha spaziato anche nella grande letteratura straniera, da Stendhal a Tolstoj a Hrabal, si è mosso volentieri ai confini tra letteratura e critica d’arte, ha dedicato uno studio alle testimonianze della Shoah. E partendo filologicamente dal testo, dallo stile e dalle strutture formali, il suo interesse si è sempre allargato ai significati sociali, politici, civili.
Professor Mengaldo, che mondo vede? Quali mutamenti in corso?
«Non è un buon periodo. La disoccupazione ha raggiunto cifre eccessive per un Paese civile, i problemi dell’immigrazione che ci toccano da vicinissimo non vengono affrontati con chiarezza. Quando ero giovane i rapporti sociali si realizzavano in presenza di discussioni ideologiche piuttosto forti e dure: questo sembra definitivamente scomparso e per un vecchio uomo di sinistra come me non è un bene».
Perché mai il fatto di non avere più schemi e modelli di riferimento precostituiti dovrebbe essere uno svantaggio?
«Da non competente, la mia impressione è che la crisi delle ideologie abbia molto ridotto la discussione filosofica, senza offrire nulla in cambio. C’è un’inerzia filosofica preoccupante, che comporta un vuoto di discussione e di scambio culturale e direi civile sui grandi temi».
Questo si riflette anche nella critica letteraria?
«Si può fare bene della filologia tecnica, ma la critica testuale migliore deve sfociare in altro, che è la valutazione, il significato dell’opera. I grandi critici dello stile si sono sempre appoggiati su punti di vista filosofici».
Per esempio?
«Sento molto la mancanza di quella critica di formazione psicologica o psicoanalitica, il cui ultimo esponente in Italia è stato Francesco Orlando. Anche Freud è stato buttato alle ortiche. In Italia l’ultimo tipo di pensiero interessante, anche se non l’ho mai condiviso, è stato il pensiero debole. Da allora non mi pare che sia successo nulla di significativo».
Per anni comunque la critica è stata accusata di essere schiava dei modelli teorici: strutturalismo, semiotica, formalismi vari...
«Per decenni, a partire dallo strutturalismo, la discussione sui metodi della critica letteraria è stata molto intensa, ma da parecchi anni non se ne parla più. È un bene o è un male? È vero che la discussione teorica, dagli anni Sessanta, ha avuto aspetti di eccessiva rigidità che la rendevano poco applicabile nella pratica, ma è anche vero che oggi si continua a usare qualche scampolo di quelle teorie senza nessuna discussione e senza proporre metodi nuovi».
Comunque la pratica critica in Italia è stata molto meno rigida che altrove, per esempio in Francia. Non le pare?
«Ma sì, anche per merito di Cesare Segre, che ha messo insieme semiotica e filologia, la critica italiana è stata molto più libera e moderata. Oggi riscontriamo una maggiore vitalità, almeno apparente, negli studi culturali o di genere, che per quelli come me con una formazione filologica presentano l’enorme difetto di ignorare la centralità del testo. Tutto conta tranne l’opera, il suo valore, i suoi meccanismi interni. Mentre per la filologia il testo è sempre centrale, per quel tipo di studi il testo è una presenza quasi incidentale, documentaria».
Gianfranco Contini è ancora presente nella critica di oggi?
«Sì, almeno in parte. Ma quel che meraviglia è che altrove, fuori d’Italia, non abbia avuto alcuna eco. Contini non è mai stato tradotto. Come Giacomo Debenedetti, del resto, che non ha avuto ascolto all’estero neanche quando ha scritto di Proust. L’Italia è abituata a ricevere molto intensamente le altre culture, soprattutto dopo la crisi del crocianesimo, mentre la cultura italiana all’estero ha difficoltà ad arrivare».
Non bisogna dimenticare che Contini sarebbe piuttosto difficile da tradurre.
«Diciamo anche che Contini è molto più forte dal punto di vista dei metodi che non per le tesi storico-letterarie, che in genere mi sembrano molto discutibili».
Che ne dice della riproposta del libro più famoso di Asor Rosa, Scrittori e popolo ?
«Non l’ho più riletto, ma ai tempi in cui è uscito, nel 1965, ha avuto un effetto molto positivo: ha rotto i pregiudizi critici e teorici della sinistra rivalutando, da sinistra, i grandi scrittori borghesi in opposizione alla vulgata populistica di quegli anni».
Com’è cambiata la critica militante? Qualcuno dice che non esiste più.
«La critica militante ha bisogno di ideologie forti, che non ci sono più, oltre che di luoghi e spazi. Mi pare che sulla sua scomparsa abbia influito molto l’imbarbarimento dei giornali, a proposito dei quali non c’è paragone possibile rispetto alla ricchezza critica del passato. L’ultimo evento catastrofico, da questo punto di vista, è stata la chiusura di una rivista come “Belfagor”, un giornale con un orientamento preciso in cui si poteva scrivere di tutto, liberamente, anche stroncando. La stroncatura era un’arte straordinaria dei nostri maestri. Vedo che nell’unico giornale che fa sistematicamente recensioni, “L’Indice”, si parla bene di tutto».
Eppure «L’Indice» fu fondato da un suo amico, Cesare Cases, che era il re della stroncatura.
«Cases era un uomo amabilissimo. Soprattutto un grande polemista: se cadevi nelle sue grinfie erano guai. Aveva una cultura abbastanza tipica del marxismo, ma la correggeva sempre grazie a interessi vari che lo portavano, per esempio, verso Kraus e la tradizione aforistica tedesca. Fin dall’inizio è stato un comunista molto eterogeneo».
Mentre l’amico-nemico Fortini era più rigido.
«Se è una domanda, non voglio rispondere».
La critica deve anche accompagnarsi con una letteratura all’altezza, non crede?
«La critica militante, ma anche quella accademica, vive se c’è una letteratura importante che la segua e la stimoli».
E questa non c’è?
«Non mi pare. Non saprei dirle il nome di uno scrittore d’oggi al livello di Calvino, Primo Levi o Volponi. Il carattere più interessante della narrativa italiana attuale è quantitativo più che qualitativo: ne esce tantissima, ma è priva di originalità».
Anche Saviano?
«Saviano può suscitare un interesse, ma non di tipo letterario».
E sul piano della poesia andiamo meglio? Lei negli anni 70 aveva fatto una importante antologia che si fermava a Franco Loi. Aggiungerebbe qualcun altro?
«Oltre Milo De Angelis, Valerio Magrelli, Fabio Pusterla, non vedo molto».
Che pessimismo, professore...
«Io continuo a leggere gli israeliani, Roth, Don DeLillo... Il mio bisogno di leggere si appaga ugualmente. Ma in Italia non ho visto nascere grandi scrittori negli ultimi trenta-quarant’anni».
Eppure, dagli anni Novanta in poi in Italia il romanzo è uscito dal minimalismo ombelicale dei decenni precedenti. C’è il giallo, c’è il noir, c’è stato il cosiddetto pulp che hanno molto svecchiato il romanzo.
«Sono fenomeni più rilevanti per il contenuto sociologico che per la scrittura. C’è stato indubbiamente un positivo rinnovamento nelle zone medio-basse, ma anche un eccesso...».
Pensa alla moda della letteratura di genere?
«Questo è un problema che riguarda non solo l’Italia ma tutti i Paesi capitalistici, cioè la corsa alle richieste del mercato. Camilleri è un buon scrittore di polizieschi, ma ne ha scritti troppi».
Sempre meno di Simenon...
«Simenon ne ha scritti tanti ma senza sbagliarne uno. Io sono un suo appassionato lettore: nel Novecento non ce n’è altri di quella statura. Ha trasformato un genere tipicamente angloamericano in una letteratura che restituiva una visione molto acuta di Parigi e della Francia. Molti, anche in Italia, cercano di imitarlo, ma Simenon rimane unico».
Si dice comunque che per capire la società italiana d’oggi si debbano leggere i giallisti.
«Secondo me servono di più i saggi di carattere storico o sociologico. E poi più che capire l’Italia, bisognerebbe capire Napoli, Palermo, Roma... Mi aspetto che nella narrativa napoletana salti fuori qualcosa del livello di certi libri di Ermanno Rea. Un romanzo magnifico, uscito nell’86, è Il resto di niente , sulla Rivoluzione napoletana del 1799: dice una cosa molto importante».
Cioè?
«Dice che per Napoli e per l’Italia in generale quella sconfitta è stata fondamentale: bisogna risalire lì per comprendere i problemi di oggi. Lo sostiene anche La Capria. Bisognerebbe poi che qualcuno raccontasse come la soluzione di Roma capitale sia stata il peggior errore della classe politica ottocentesca, compiuto per ragioni ideologiche: si è finito per trasformare in capitale un “borgo ciociaro”, come direbbe Leopardi».
E della generazione di Tabucchi, Del Giudice, Celati che cosa pensa?
«Tabucchi ha scritto cose buone accanto ad altre discutibili. Del Giudice ha cominciato con un ottimo romanzo, Lo stadio di Wimbledon , sia pure nel solco di Calvino, ma dopo non ha più eguagliato quel livello. La narrativa di Celati mi è un po’ estranea».
Come spiega questa latitanza della letteratura italiana?
«Parecchi anni fa ho formulato un’ipotesi: che cioè la narrativa migliore nasca in Paesi in cui la società e la politica pongano seri problemi nazionali, per esempio contrasti etnici, politici, religiosi. Paesi in cui le lacerazioni sono profonde, come Israele. Alla letteratura non fa bene un tipo di società omogeneizzata, come sono quella italiana o quella francese».
In Francia però non mancano i grandi narratori: Houellebecq, Carrère, il premio Nobel Modiano...
«Sono rimasto stupefatto del Nobel dato a uno scrittore mediocre come Modiano. Quanto a Houellebecq, ne penso tutto il male possibile: non amo la sua furbizia nell’affrontare problemi d’oggi in maniera estremistica al solo scopo di interessare immediatamente e stupire il lettore».
Torniamo alla poesia. Lei è stato amico di Vittorio Sereni. Che ricordo ne ha?
«In generale sarebbe buona cosa evitare di conoscere i poeti, perché sono strani animali. Montale, per esempio, non mi era per niente simpatico. Tra l’uomo e il poeta Fortini c’era una certa distanza. Sereni era un’eccezione: l’uomo e il poeta facevano tutt’uno, per questo era così amato. Lo stesso si può dire per quell’uomo delizioso e grande poeta che era Raffaello Baldini. Baldini e Raboni hanno raggiunto un livello poetico che nessuno di quelli venuti dopo ha saputo eguagliare».
E il ticinese Giorgio Orelli, di cui lei ha preparato l’introduzione per l’Oscar in uscita?
«Ho un’enorme ammirazione per la qualità poetica di Orelli: la sua individualità è il risultato del confronto continuo tra il radicamento nella sua realtà locale, bellinzonese, e la profonda cultura europea che aveva. È una poesia originalissima, non saprei trovare nulla di simile».
Lei ha insegnato tanti anni all’Università di Padova, che ne pensa della tentazione compulsiva a riformare la scuola e l’università?
«Sono andato malvolentieri in pensione, perché il contatto con i giovani è impagabile. Per altri aspetti ne sono stato felice: in primo luogo per la mancanza cronica di finanziamenti e per la galoppante burocratizzazione... Il docente rischia di diventare sempre più un impiegato. Poi ci è capitata tra capo e collo la riforma del 3+2, che per la facoltà di Lettere è stata una ferita immedicabile».