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 2015  agosto 23 Domenica calendario

IL RECLUTATORE

Le spie di Putin, quelle del servizio Fsb, sostengono che nelle file dello Stato islamico combattano cittadini di cento Paesi. Il controspionaggio di Obama, l’Fbi, stima che l’Isis diffonda la sua propaganda in 23 lingue diverse. Stime che si aggiungono ad altri numeri, le migliaia di muhajireen , i volontari partiti anche dall’Occidente per arruolarsi sotto la bandiera nera. Una filiera inarrestabile non solo per le complicità di alcuni Paesi — come la Turchia — che hanno vigilato poco o hanno fatto nulla per bloccare il passaggio.
La vera forza del movimento sta nell’individuo, nella rete capillare che lo aggancia, lo plasma, lo convince e alla fine lo porta dalla sua parte. Un processo a volte lento, altre rapido. Un approccio suadente che fa presa negli Stati Uniti ma anche in Cina e in Europa. I seguaci di Abu Bakr al Baghdadi, il Califfo, hanno in parte riadattato alle loro esigenze il manuale preparato da «Al Qaeda in Iraq», la fazione guidata da Abu Musab al Zarkawi a metà degli anni Duemila. Si intitola L’arte del reclutamento : un compendio di consigli, trucchi e mosse messi a punto da chi è abile nello scorgere potenziali candidati. Quello studio è stato tramandato fino a oggi, quindi rielaborato in base alle nuove esigenze e alla realtà dove il «pescatore» jihadista getterà il suo amo. Con o senza esca. A seconda della preda.

Dogma ma anche molta flessibilità. Ideologia e, insieme, tanto pragmatismo per andare incontro a giovani che hanno voglia di ascoltare, ma soprattutto di fare. C’è un grande mare là fuori, tocca tutti i continenti, non conosce confini e, se pure esistono, li supera in un secondo. È l’oceano di internet.
Da qui comincia il viaggio verso i fronti di guerra. In modo costante e ossessivo l’Isis rilancia le sue parole d’ordine, alza i toni e il volume quando si avvicinano le feste islamiche oppure in caso di eventi importanti. I militanti si sparpagliano sulla rete, usano Twitter, Facebook, Instagram. Parlano via Skype. Cercano contatti e poi li intrecciano in modo saldo.
Una ragazza può interagire per settimane con Ahmad, o Mohammed, o Feisal. Lui racconta di trovarsi nel Califfato. I primi temi sono religiosi, conditi però — quando serve — da argomenti più terreni. Il cibo e il tempo libero, per esempio. Con pazienza il reclutatore dipinge un quadro rose e fiori del territorio dove vivono i mujaheddin . Non manca nulla. Casa, auto, assistenza, organizzazione. «È uno Stato vero, sorella, lo vedrai tu stessa».
Se si convince che la «novizia» promette bene, eleva il livello dei discorsi. Le questioni del Corano si mescolano ai messaggi di battaglia. Suggerisce letture e video adeguati: la guerra in Afghanistan, i massacri dei musulmani in Bosnia, la Palestina. Fa passare un doppio segnale. Dovere morale di difendere l’islam e seguire l’esempio dei combattenti. Sono i classici ganci, già usati dai qaedisti: funzionano sempre, non sfioriscono mai, universali e comprensibili a ogni latitudine. In alcuni frangenti l’emissario del Califfo, basato in Europa, si comporta come un innamorato, promette alla donna il matrimonio e un’esistenza tutta nuova. Le manda dei doni.
Come ha rivelato una formidabile inchiesta del «New York Times», un attivista ha spedito libri ponderosi, opuscoli, buoni acquisto e tavolette di cioccolato Lindt. Marca scelta non a caso: ricorda la presa di ostaggi di un lupo solitario in una pasticceria di Sydney nel dicembre 2014. Attacco concluso con la morte del terrorista e di due clienti. Altri hanno postato foto innocenti — come i consueti gattini o vasetti di Nutella — accanto a quelle di guerrieri.
È un lavoro che punta all’immaginazione per conquistare poi cuori e menti dell’adepto. Il marketing del Califfato offre, a chi ci crede, una «jihad a cinque stelle», termine coniato da un estremista d’origine britannica. È lotta, sofferenza, sangue, martirio, però in un ambiente confortevole, ben lontano — intende il propagandista — dalle asprezze vissute dagli uomini di Bin Laden in Afghanistan, in condizioni spartane.
Al centro si colloca la persona e le sue necessità. Lo Stato islamico mette sul piatto d’argento un nuovo inizio, un’alternativa alla solitudine, un’esistenza diversa dove la recluta può servire Allah, la causa e se stessa. È qui il segreto. Una ragazza potrebbe spiegare così: «Mi fanno sentire importante».
Non esiste il profilo unico del militante, ecco perché è difficile intercettarlo, scoprirlo, fermarlo. Molti beffano non solo la polizia, ma anche i loro genitori. Alcuni sono cresciuti in modo normale, in apparenza inseriti nel tessuto sociale occidentale. Però può capitare che le radici non siano profonde. E il «pescatore» è scaltro, riesce a recidere il legame indicando un’alternativa coerente.
Rispetto ad al Qaeda è tutto più rapido e potente. Non ci sono pause d’attesa, riflessione, necessità di chiedere consigli a un saggio. C’è una scorciatoia: è l’interlocutore sul web che risponde ai quesiti. Guai a rivolgersi alla moschea tradizionale. Lo Stato islamico — forza che punta a sovvertire gli schemi — lo proibisce e contesta apertamente gli ideologi. Una rivoluzione dal basso che mette in discussione lo sheikh del tempio islamico del quartiere e la guida spirituale famosa in Medio Oriente.
Quando agganciano una donna cristiana e riescono a portarla alla conversione, non devono chiedere l’assistenza di nessuno per l’atto di fede ufficiale. Ci pensano loro online: bastano due testimoni virtuali. Uno seduto davanti al computer in un Paese, un altro che impugna uno smartphone a migliaia di chilometri di distanza. È quello che ha ricostruito il «New York Times» grazie al racconto della protagonista, Alex, ventenne della Virginia.
Si trova anche la soluzione per le nozze. Se lei vuole aspettare prima di raggiungere il Califfato, si possono organizzare in un altro luogo. Anche in Occidente. Pensano a tutto. Poiché la giovane non può viaggiare da sola e le serve un maschio della famiglia che l’accompagni, sarà sufficiente che si porti dietro il fratellino di undici anni.
La formula vincente dello Stato islamico risiede anche nella facilità. «Easy e bello». In realtà l’assenza di regole è solo apparente: all’interno del regno si scherza poco. Chi sgarra paga con punizioni feroci e anche con la vita. Ma quello viene dopo. Prima è una strada agevole che può apparire in discesa, se l’individuo che la intraprende ha vissuto un’esistenza grama, di solitudine, ai margini della società. Il grande timore dell’antiterrorismo è quello del singolo che agisce quasi all’improvviso. Un singolo innescato dall’esplosione di problemi personali (lavoro, studio, guai con la legge), poi rivestiti da una patina di religione-politica preparata dagli alchimisti del Califfato e venduta sulla rete.
L’Isis è consapevole che la contropropaganda presenta spesso i volontari come dei perdenti. E alcuni lo sono sul serio, anche se lo negano. Ha fatto storia il video del canadese Andre Poulin, un mujahed. In un video diffuso nel 2014 sostiene, mentendo, di aver avuto una vita normale e poi si lancia in un appello: «Servono ingegneri, medici, professionisti. Abbiamo bisogno di persone che costruiscano case e sappiano usare la tecnologia. C’è un ruolo per tutti».
All’inizio il mondo del Califfo può avere tinte tenui, poi tende al rosso sangue. Il reclutatore non lo nasconde. Anzi: esalta i gesti cruenti e feroci. Le reclute ricevono filmati delle decapitazioni, dei prigionieri uccisi, dei kamikaze alla guida di camion bomba. Citiamo ancora la clip con Poulin. Le ultime immagini lo mostrano mentre si lancia contro una base siriana e muore. Riappare brevemente, una luce soffusa attorno alla sua figura. Una voce in inglese recita: «Ha risposto alla chiamata del Signore e ha offerto il suo spirito senza esitazione, lasciando tutto alle sue spalle». Quindi le ultime parole di Poulin: «Mettete Allah davanti a tutto».

Questi documenti servono a studiare le reazioni dei candidati. Raramente li mettono in fuga, difficilmente insinuano il dubbio. Una di loro, Umm Bara, una ragazzina di 17 anni d’origine indiana cresciuta a Chicago, non ha avuto alcun rimorso nel piazzare una faccina sorridente sotto il video che mostrava l’assassinio di un ostaggio. Materiale fornito da un uomo che si presentava come Abu Qaqa.
Lui era pronto ad accoglierla in Turchia in vista del trasferimento in Siria, passaggio non completato perché l’Fbi ha bloccato l’adolescente, la sorella e il fratello poco prima della partenza da un aeroporto statunitense. I genitori, religiosi osservanti, hanno reagito con sorpresa quando gli agenti hanno rivelato l’intera storia. Proprio loro che avevano fatto di tutto per proteggere i figli dalle insidie della società, proibendo la tv e arrivando anche a educarli, per un certo periodo, in casa. Erano convinti che alcuni aspetti della cultura occidentale dovessero restare fuori della villetta. Li consideravano una minaccia. Invece il pericolo aveva soltanto un soprannome, Abu Qaqa. Viveva lontano dal loro quartiere. Ed era tremendamente vicino.