Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 23/8/2015, 23 agosto 2015
BORSE, QUEL GRANDE CROLLO CHE NESSUNO SA DAVVERO SPIEGARE
Quando ci sono troppe spiegazioni di un evento difficile da interpretare, è probabile che nessuna sia quella giusta, o almeno sufficiente. Da anni i mercati non davano segni di nervosismo come questa settimana: l’indice della paura – quel Vix index cui Robert Harris ha dedicato anche un romanzo – ha registrato un balzo del 96 per cento, il maggiore della sua storia (record precedente: +86 per cento). Misura la volatilità, cioè quanto si muovono i mercati.
A Wall Street l’indice Dow Jones è sceso del 3,12 per cento, l’S&P 500 del 3,19 per cento, il Nasdaq – che raccoglie i titoli tecnologici – già del 3,52. Sia il Dow che il Nasdaq hanno perso il 10 per cento rispetto al loro picco annuale. Nell’ultimo mese, la Borsa di Milano ha perso il 9 per cento. Gli investitori hanno ostentato serenità per diversi giorni, poi hanno iniziato a preoccuparsi. Che cosa sta succedendo?
1. È la correzione che doveva arrivare
L’interpretazione dei movimenti di Borsa assomiglia alla lettura dei fondi di caffè, si guarda al passato cercando nei numeri leggi che permettano di prevedere il futuro. Secondo il blog finanziario Marketwatch, questa potrebbe essere “la correzione che i mercati stavano aspettando”: dopo il disastro del fallimento di Lehman Brothers, nel settembre 2008, e i crolli che ne sono seguiti, tutte le misure straordinarie (spesa pubblica, politica monetaria, ecc.) hanno spinto le Borse al rialzo. Cioè le hanno fatte salire più di quello che sarebbe corretto sulla base dei fondamentali (redditività attuale e futura). Secondo i calcoli di MarketWatch, queste stampede (fughe disordinate di animali) durano di solito tra le 17 e le 25 sedute di Borsa. Venerdì era la seduta di ribassi numero 24, normale che qualcuno abbia cominciato ad agitarsi. I gestori di fondi spandono ottimismo o almeno cautela, invitano a non farsi prendere dal panico. Ma il sospetto che la nuova bolla tecnologica stia scoppiando – quella che ha fatto salire del 6 per cento le azioni di Google dopo una mera riorganizzazione societaria – apre scenari diversi. Chissà quando si fermerà il crollo.
2. Tutta colpa della Cina
Sul Financial Times , l’economista George Magnus ha scritto che “il modello cinese si sta avvicinando alla fine”. Questa è l’altra fonte di grande preoccupazione per gli investitori mondiali: la crescita cinese è stata travolgente, ma un modello fondato sulle esportazioni e la compressione dei consumi interni non poteva durare per sempre. Complici i crediti facili di un sistema bancario ombra fuori controllo, la Borsa è cresciuta troppo e ora crolla, l’indice Shanghai Composite Index è sceso dagli oltre 5000 punti di giugno ai 3500 di oggi. La Banca centrale ha deciso una piccola svalutazione del renminbi (come si chiama lo yuan sui mercati). Dal 10 agosto a oggi il cambio è passato da 6,8 yuan per un euro a 7,2. Una piccola correzione, visto che in questi anni il cambio reale dello yuan si è apprezzato, ma che è bastata a molti osservatori per vedere in questa mossa un tentativo disperato di Pechino di sostenere le sue esportazioni. Questo ha alimentato ulteriormente le paure – diffuse da mesi – di un rallentamento dell’economia cinese solo in parte riflesso dalle statistiche ufficiali. E se si ferma la locomotiva del mondo, è un disastro. Questi timori sono solo in parte razionali, la Cina è meno fragile di quello che i trader pensano e il suo presidente Xi Jinping non ragiona sui millesecondi dei mercati, ma col passo lungo della storia. Disastri come l’incendio della città di Tianjin – oltre 100 morti e una città portuale devastata – hanno indebolito ulteriormente l’immagine del Paese
3. Tutta colpa della Fed e degli Usa
A settembre 2014, la Federal Reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti, si aspettava un’inflazione nel 2015 tra l’1,6 e l’1,9 per cento. Invece nelle stime di giugno la stima è scesa, la forchetta ora è tra 0,6 e 0,8, mentre tutte le Banche centrali considerano accettabile e auspicabile un’inflazione attorno al 2 per cento. Eppure, prima o poi, la Federal Reserve dovrà comunque aumentare i tassi di interesse che sono stati azzerati nel 2009, come reazione alla crisi finanziaria che aveva congelato i mercati e fatto sprofondare l’economia reale. Da oltre un anno gli investitori si stanno preparando a un aumento del costo del denaro negli Stati Uniti, che dovrebbe segnare l’inizio della fine dell’inondazione di liquidità di questi anni (la Bce continuerà con il suo quantitative easing almeno fino a settembre 2016). Ma adesso dentro la Fed stanno prevalendo le “colombe”, quelli che ritengono che non sia ancora il momento, che non si vedono i segnali di un’inflazione pericolosa (anche se i tassi bassi gonfiano anche le bolle azionarie, da cui Wall Street non sembra indenne).
L’ex segretario al Tesoro Larry Summers ha da tempo aperto il dibattito sul “ristagno secolare” che parte dal sospetto che il tasso di interesse naturale – quello di cui l’economia americana avrebbe bisogno per crescere senza pericoli d’inflazione – sia diventato negativo. E quindi oltre la portata delle Banche centrali. Perché dunque alzare i tassi? La confusione aumenta l’incertezza che, spesso, in Borsa diventa panico.
4. Tutta colpa dell’Europa
Per una volta non è l’Eurozona al centro delle preoccupazioni degli investitori, le dimissioni di Alexis Tsipras da premier greco sono addirittura piaciute ai mercati. Il prossimo governo sarà sicuramente più propenso a riforme impopolari di quello attuale centrato sulla sinistra anti-austerità di Syriza.
Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 23/8/2015