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 2015  agosto 23 Domenica calendario

Chissà cosa accadrà alla 10 di Francesco Totti, quando lui deciderà di smettere. La toglieranno? Oppure la Roma lascerà quel feticcio a disposizione di un sogno? Nell’attesa si può notare come le magliette personalizzate siano state, in questi vent’anni, una manna per sponsor e falsari, visto che impazzano pure sulle bancarelle del tarocco, complice una normativa che in Italia non tutela un granché i marchi ma diventa una soluzione democratica: perché le maglie ufficiali hanno prezzi proibitivi, visto che si tratta pur sempre di materiali sintetici, anche se iper tecnologici, non certo sete d’Oriente

Chissà cosa accadrà alla 10 di Francesco Totti, quando lui deciderà di smettere. La toglieranno? Oppure la Roma lascerà quel feticcio a disposizione di un sogno? Nell’attesa si può notare come le magliette personalizzate siano state, in questi vent’anni, una manna per sponsor e falsari, visto che impazzano pure sulle bancarelle del tarocco, complice una normativa che in Italia non tutela un granché i marchi ma diventa una soluzione democratica: perché le maglie ufficiali hanno prezzi proibitivi, visto che si tratta pur sempre di materiali sintetici, anche se iper tecnologici, non certo sete d’Oriente. Le nuove maglie di Roma (Nike) e Juventus (Adidas) costano rispettivamente 121 e 120 euro, e non è escluso che la cifra contenga anche la suggestione del nome (della maglia, non del calciatore): all’Adidas l’hanno infatti battezzata, un po’enfaticamente, “ Gara Home Autenthic”. Ma la fantasia degli sponsor non si ferma qui. Dopo avere battezzato le maglie una per una, comprese quelle che portano numerazioni da autobus (il 37, il 52…) con il cognome dell’eroe o del Carneade, hanno pensato di doverle compulsivamente cambiare ogni anno nella linea, nel design, insomma nei ghirigori che le caratterizzano: altrimenti non se ne venderanno di nuove, e il tifoso si lascerà invecchiare addosso quella che ha, stinta, vissuta, forse sbrindellata. Invece, il trucco del mercato ha imposto che le divise, specialmente le seconde (indossate di solito in trasferta) o le terze (puro delirio di qualche creativo: l’anno scorso il Napoli ne aveva una mimetica, orribile) siano come le collezioni di moda, una diversa per ogni stagione. Così il pubblico, per non sentirsi sorpassato, prima desidera e poi acquista la primizia, e chi non la indossa è un puzzafame, uno che non ha neanche i soldi per rinnovare il guardaroba da curva (massima solidarietà, a questo punto, agli acquirenti delle bancarelle, dove con una ventina di euro ci si toglie la paura). Nomi, cognomi e numeri. E qui, nella scelta, la creatività è dell’atleta e non dello sponsor. Così Zamorano prese la 18 quando arrivò all’Inter, perché la 9 era già occupata da Ronaldo, però si fece mettere un piccolo “+” tra le due cifre: 1 più 8 uguale 9. Quasi inarrivabile Marco Fortin, portiere del Siena che scelse il 14 per via della pronuncia inglese, in pratica il suo cognome, anche se il 14 passò alla storia del calcio perché dal 1970 lo indossò Johann Cruyff, ma solo per un disguido di spogliatoio: la 9 non si trovava e l’olandese capì che quel casuale numero 14, da lì in poi, lo avrebbe segnato come unico. Tuttavia nessuno, senza offesa per Cruyff o Maradona, meravigliosamente e banalmente 10, come Pelè, potrà mai superare Fabio Gatti del Perugia. Il quale scelse il 44 in omaggio nientemeno che allo Zecchino d’Oro, cioè ai leggendari 44 gatti in fila per sei col resto di due. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Vent’anni fa per la prima volta i calciatori scesero in campo con il cognome sulla schiena e un numero da scegliere tra 99 Che cosa voleva dire? Che il singolo era più importante della squadra E che gli sponsor avrebbero fatto affari d’oro MAURIZIO CROSETTI NOMINAREIL MONDO E SE STESSI, essere il proprio nome o forse diventarlo. Sembra solo una storia di maglie e palloni, ma c’è dietro molto di più. Dietro, davvero: nel senso della schiena. Da vent’anni i calciatori italiani portano infatti il cognome tra le spalle, sopra quel numero che un tempo indicava il ruolo, l’identità tattica (2 terzino destro, 5 stopper, 9 centravanti) e poi è diventato, anche lui, un marchio, la personalizzazione di sé. Addio per sempre alle formazioni dall’1 all’11. Adesso, se dici 99 pensi a Cassano e non nel senso dei chili. Se dici 21, ecco Pirlo. Come nel basket, dove il 23 di Michael Jordan era più di un autografo, due cifre come il codice di una cassaforte, uniche e soltanto per lui. Fino a un certo punto, uniche. Due calciatori, Materazzi e Ambrosini, scelsero quel numero proprio in omaggio a Sua Altezza Aerea. Ma la lontana stagione sportiva 1995-96 non fu il trionfo dell’ego ipertrofico, semmai un astuto calcolo commerciale. Gli sponsor tecnici, cioè la case produttrici del materiale indossato dagli atleti per contratto, chiesero e ottennero dalla Lega Calcio il via libera alla rivoluzione onomastica. Sapevano che, da quel momento, la vendita delle magliette si sarebbe impennata: perché il tifoso non avrebbe più comprato solo la casacca numero 10 della Juventus, ma la divisa di Del Piero, anzi Del Piero. L’atto dell’acquisto si sarebbe trasformato in un viaggio feticista (compro lui ) e in una sorta di transfert (indosso quella maglia e divento lui ). Memorabile la scena di Tre uomini e una gamba , quando Aldo si presenta con la maglietta interista di Ciriaco Sforza come pigiama. «Quella di Ronaldo era finita», spiega a Giovanni e Giacomo un po’ perplessi. Prima del nome, però, fu il numero. Un’invenzione americana degli anni Venti, finale di National League tra Vesper Buick e Fall River Marksmen, Massachussets. I Buick si presentano con numeri sulla schiena e sponsor sul petto. Americanata? All’inizio pareva, ma quando anche in Inghilterra (dove inventarono il pallone) decisero di numerare il football, la bizzarria divenne canone. E così il 25 agosto 1928, prima giornata del campionato inglese, il Chelsea scese in campo con i numeri tra le scapole nonostante il veto della Federazione. Seguì una tournée in Sudamerica, dove i blues divennero “los numerados”. Come per ogni vera novità, ci fu chi si oppose con argomenti anche singolari, come Billy Minter, manager del Tottenham: «Ai calciatori basta il nome nel programma di gara, trovo inutile che siano numerati come fantini, lo spettatore medio è in grado di identificarli dalla loro posizione in campo ». Forse. Però i numeri piacquero, e dal 1933 (finale di Coppa d’Inghilterra) vennero ufficializzati. Si dovette aspettare il 1954 perché accadesse anche ai Mondiali, mentre la nostra serie A dal 18 settembre 1939 aveva già deciso di numerare i calciatori: per una volta non siamo arrivati ultimi. Avere il cognome sulla schiena, tuttavia, è qualcosa di più. È rivendicare il primato dell’individuo sul club, dell’uomo sull’ente. Mica per nulla, nome e numero personalizzati finiscono per identificarsi. Nel caso dei campioni che hanno fatto la storia di un club, non è inusuale che la maglia speciale venga ritirata quando il fuori- classe dice addio. Mai più vedremo la numero 3 del Milan (Maldini) a meno che un figlio del grande Paolo non arrivi in prima squadra con i rossoneri: è stato proprio Maldini, già figlio d’arte di Cesare, a chiedere questa clausola. Mai più la 6 del Milan (Franco Baresi, senza postille), la 4 dell’Inter (Zanetti), la 3 dell’Inter (Facchetti), la 11 del Cagliari (Gigi Riva), la 6 del Genoa, quella del povero Gianluca Signorini, storico capitano del grifone morto di Sla. Invece Del Piero non è mai stato d’accordo con il ritiro della maglia: «La 10 della Juve è un simbolo, ed è giusto che ogni ragazzino possa sognare di indossarla ». Per intanto, dopo l’addio di Alessandro se l’è presa Tevez (ma dopo un anno di casacca vacante) e ora è stata data a Paul Pogba, campione enorme che però non è un 10 classico e mai lo sarà. Anche se abbiamo visto come il numero, stretto stretto al nome, non sia più il segno di un ruolo ma il marchio di un personaggio.