Carlo Carabba, Sette 21/8/2015, 21 agosto 2015
QUANDO L’EVEREST SI SCROLLÒ DI DOSSO GLI UOMINI
QUANDO L’EVEREST SI SCROLLÒ DI DOSSO GLI UOMINI –
Non è difficile capire il motivo per cui la tragedia dell’Everest del maggio 1996 sollevi ancora tanta attenzione da spingere gli americani a dedicarvi un film che potrebbe dominare alla prossima Biennale di Venezia. Intendiamoci, a cercare nel genere “catastrofico” si possono trovare infiniti soggetti che non mancano d’effetto. Ma il tema Everest ha un fascino “classico” che è allo stesso tempo antico e modernissimo; remoto eppure reso prossimo e vivo come mai dalla tecnologia digitale; una volta relegato all’immaginario di sportivi super allenati e con ricchi sponsor, ma ormai da almeno due decenni alla portata di un pubblico molto più vasto che abbia voglia di mettersi in gioco. Inoltre, come spesso accade nelle storie di montagna, è condito di polemiche, gelosie, competizioni tra personalità forti, versioni contraddittorie, atti di estrema generosità, ma anche codardia, piccolezze dell’animo umano.
La trama è presto riassunta, a suo tempo riempì per mesi e mesi le pagine dei quotidiani, fu al centro di elaborate e affascinanti inchieste giornalistiche con reporter-alpinisti armati delle telecamere ultimo modello spinti a investigare i pendii nella “zona della morte” oltre gli 8.000 metri. Quell’anno, tra il 10 e 12 maggio, trentaquattro tra alpinisti e sherpa d’alta quota inquadrati in tre importanti “spedizioni commerciali” e altre minori per una serie di circostanze dettate da errore umano, sfortuna, oppure semplicemente casualità, si ritrovarono imbottigliati presso gli 8.848 metri della cima, dove una forte tempesta con venti superiori ai 150 chilometri all’ora e visibilità ridotta allo zero li ridusse rapidamente allo stremo. Nove di loro persero la vita, un’altra decina soffrì congelamenti gravi o gravissimi, tanto da avere mani e piedi amputati. Fecero scalpore i racconti tipo quello dell’australiano cinquantenne Lincoln Hall, lasciato per morto sotto la vetta, poi “resuscitato” miracolosamente da un sussulto del cervello e sceso da solo due giorni dopo ai campi bassi con la sola forza di volontà. A rendere la vicenda particolarmente vivida c’è Aria Sottile, il libro dello scrittore americano d’avventure “outdoor” per eccellenza Jon Krakauer. Lui c’era, pronto, con tanto di piccozza e ramponi: era stato mandato dal periodico statunitense Outside a scrivere in diretta il reportage dell’ascensione. Un lavoro che a sua volta sollevò forti polemiche. Per esempio Krakauer accusò senza troppi giri di parole il fortissimo alpinista russo kazako Anatoli Boukreev, che era stato assoldato come guida in una delle spedizioni, di essere sceso troppo in fretta dalla cima lasciando i suoi clienti in difficoltà. La risposta allora dello stesso Boukreev (e poi, tra i tanti, dall’alpinista italiano Simone Moro, che in quel momento non era sulla montagna, ma ne era amico fraterno e non esitò a prenderne le difese) fu che in realtà il suo aiuto sarebbe stato poco rilevante. Mentre la sua idea di perdere quota rapidamente a riacquistare le forze alle tende del Colle Sud (il campo più alto a quasi 8.000 metri) per poi guidare quelli che scendevano fu molto più efficace. Cosa che in effetti avvenne con successo. Mentre per esempio Rob Hall, il capo spedizione di Krakauer, che con uno slancio di generosa dedizione restò nei pressi della cima senza ossigeno per aiutare gli ultimi, ebbe conseguenze catastrofiche, causando il suo decesso e senza portare alcun concreto beneficio ai suoi clienti, comunque morti assiderati o per edema cerebrale e polmonare. Ciò detto, l’opera di Krakauer resta la più completa e fondamentale per seguire quei fatti, ricca di dettagli, romanzata senza esagerare, degno seguito del suo celeberrimo Nelle Terre Estreme. Non è strano sia stata scelta come sceneggiatura per il film.
A drammatizzare la storia non è certo il numero dei morti. Tutto sommato nel 1996 sull’Everest furono una dozzina, meno della media annuale da allora ad oggi. Una valanga sull’“Ice Fall”, il ghiacciaio che si trova sopra al campo base, in pochi minuti spazzò via 16 sherpa nella primavera 2014 e bloccò le spedizioni per mesi. Il terremoto che ha colpito il Nepal lo scorso 25 aprile, causando oltre 10.000 vittime, ha scatenato immense valanghe sul campo base uccidendo almeno 18 persone. Ciò che affascina è piuttosto l’Everest in se stesso, il punto più alto della terra, «dove gli alpinisti si trovano a lottare con le loro forze ad una quota dove in genere transitano solo gli aerei di linea», come notano nel film i membri paganti delle spedizioni mentre dagli oblò del jet diretto a Kathmandu nell’aria tersa dell’alba vedono stagliarsi in cielo i giganti himalayani brillanti di neve. Ci sono un postino, un avvocato, un agente di commercio, un muratore che ha venduto la casa pur di soddisfare il suo sogno di arrivare sulla cima. Qualcuno è al terzo o quarto tentativo. Ne ha fatto una malattia. Ha esaurito tutti i suoi risparmi per placare la sua “ossessione Everest”. L’alpinista classico a questo punto storce il naso. «Se cerchi davvero l’avventura, sei forte e sei giovane, oggi fai tutto tranne che salire l’Everest, specie dalle vie normali che partono dal Nepal o dal Tibet» mi diceva nel 2003, anno del cinquantenario della prima salita, Reinhold Messner, che in quell’occasione era andato a passeggiare tra la le alture erbose nella zona della Piramide, l’edificio costruito dagli scienziati italiani a 5.000 metri nella valle alle pendici nepalesi del “tetto del mondo”. E più o meno lo stesso da Kathmandu sosteneva allora Sir Edmund Hillary, il primo salitore assieme allo sherpa Tenzing Norgay, ormai troppo malato per andare oltre i 3.000 metri di quota, ma davvero stomacato dalla logica “troppo consumistica” delle spedizioni commerciali. Non avevano tutti i torti. Se ormai persino i trekking più frequentati in Nepal, come quello al campo base dell’Everest, oppure attorno al massiccio dell’Annapurna, sono stati “addomesticati” con un sistema di lodge ogni tre o quattro ore di cammino — dove il menù offre dagli spaghetti alla bistecca di yak ad uso e consumo delle decine di migliaia di turisti ogni anno spinti dal governo ad assumere guide e portatori — è però sufficiente imboccare da soli una qualsiasi vallata secondaria per scoprire una regione vasta, selvaggia e tutta da esplorare, in fondo non troppo diversa da quella che incontrarono i primi alpinisti britannici un secolo e mezzo fa.
La sfida della gente comune. Ma il succo della storia, che rese popolare il libro di Krakauer e ora è prevedibile possa catturare l’attenzione per il film, sta proprio nel fatto che tanti ragionevolmente allenati possono dirsi: «Se l’hanno fatto loro, perché non posso provarci anch’io?». Le spedizioni commerciali tanto bistrattate dai “puristi” lanciano infatti un messaggio elementare e accattivante: se ti alleni in modo ragionevole e non sei troppo avanti negli anni, con una cifra pari a circa 80.000 euro odierni puoi arrivare sul punto più alto della Terra. Tra i più entusiasti sostenitori dell’“Everest per tutti” erano nel 1996 il neozelandese Rob Hall, direttore della compagnia “Adventure Consultants” e l’americano Scott Fisher, di “Mountain Madness”. Si viene così a scoprire che la maggioranza dei loro clienti erano alpinisti scarsi. C’era quello che imparava a calzare i ramponi per la prima volta arrivando al campo base, molti non avevano idea di cosa volesse dire legarsi in cordata. Qualcuno era stato sui quasi 7.000 metri dell’Aconcagua, il “trekking peak” più alto della Terra. Però il “mal di montagna” era quasi sconosciuto a tutti. Alcuni, impegnati nel lavoro con poco tempo a disposizione, si erano illusi che bastasse salire a tempo di record 8.000 metri di “steps” in palestra vicino a casa per ottenere un grado di allenamento soddisfacente. Il loro era lo stesso ragionamento di coloro che equiparano le salite su appigli artificiali a 5 metri da terra in un capannone con le arrampicate di roccia in parete aperta, senza pensare che un sesto grado anche estremo in una stanza chiusa nulla ha a che vedere con i cambiamenti del tempo, le incertezze della via da individuare, le protezioni da inventare in montagna e a centinaia di metri dalla base. La prima è ginnastica sportiva protetta, gioco in assicurazione quasi totale; il secondo è alpinismo allo stato puro, in piena esposizione, con incognite e pericoli che solo l’esperienza maturata con pazienza, salita dopo salita negli anni, può aiutare a superare.
Ascoltare il corpo. Il dramma così monta di giorno in giorno nel seguirsi dell’azione, condizionato dalle regole e i limiti che l’alta montagna impone, sempre e comunque. Non sono sufficienti i soldi a comprare la cima. Gli sherpa, pagati una fortuna rispetto ai 50-60 euro mensili che costituiscono il reddito medio di una famiglia in Nepal, si prodigano nell’organizzare le corde fisse, piantare le tende ai quatto campi sino al Colle Sud. Soprattutto trasportano in quota le bombole dell’ossigeno, tanto importanti per trasformare l’aria rarefatta sopra i 7.000 metri. Verso gli 8.000 il tasso di ossigeno è infatti un terzo rispetto a quello che si trova al livello del mare: i polmoni e le vie respiratorie si asciugano, le cellule del cervello muoiono a milioni ogni minuto, le ferite non si rimarginano. Il trucco è acclimatarsi in fretta, salire in alto durante il giorno e dormire in basso la notte. Le malattie intestinali sono continue, l’insonnia domina le attese in tenda, l’inappetenza uccide le energie. Gli alpinisti spendono giorni interi per sciogliere il ghiaccio e trasformarlo nei liquidi da bere di continuo. Ma alla fine ognuno è responsabile di se stesso. «Ascoltate il vostro corpo. Se non vuole salire, scendete. Chi non lo fa muore», minacciano le guide. Ad esempio c’è Goran Kropp, il ciclista svedese 29enne che partendo in bici da casa sua ha percorso oltre 17.000 chilometri quell’anno per raggiungere la regione himalayana, è stato derubato in Romania, aggredito in Iran, picchiato in Pakistan. Ora è qui, sta finalmente coronando il suo sogno. Ma a 300 soli metri dalla vetta va in crisi. Non ce la fa più. E sceglie di scendere con le sue gambe, prima che sia troppo tardi. Gli altri scuotono la testa. «Due orette ed eri arrivato!», sussurrano. Ma per le guide e gli sherpa è un saggio: si è salvato la vita. Ha ascoltato il suo corpo e ha avuto la forza lucida di fermarsi. Il giorno finale partenza prima di mezzanotte, per essere certi di avere ossigeno a sufficienza nelle bombole per il ritorno al Colle Sud, inizialmente previsto entro le quindici. Ma poi nessuno mantiene i tempi. C’è ingorgo di clienti e guide allo Hillary Step, il salto alto una dozzina di metri posto a venti minuti di marcia dalla cima. Alle tre del pomeriggio tanti sono ancora bloccati da quelle parti. E intanto il tempo cambia, arriva il freddo. Sono costretti a passare la notte all’aperto, finisce l’ossigeno e pochi sono ancora in grado di ragionare con lucidità. Le comunicazioni via radio sono concitate, confuse. Hall 48 ore dopo, ormai spossato dai congelamenti, parla brevemente alla moglie incinta rimasta a casa. «Non ti preoccupare. Riposa», le dice con un filo di voce scossa da conati di tosse. Lo troveranno 12 giorni dopo nella sua tomba di neve, dove ancora giace oggi.