Jean-Marie Colombani, Sette 21/8/2015, 21 agosto 2015
RE SALMAN SCOMMETTE SUL MEDIO ORIENTE
In un Medio Oriente sempre più sottomesso alla pressione esercitata dall’Isis, che controlla in modo pseudo-statale buona parte di Iraq e Siria, dovremmo concentrare maggiormente la nostra attenzione sull’evoluzione di un attore fondamentale della regione, l’Arabia Saudita di re Salman, sul trono dall’inizio dell’anno. Mai infatti un re saudita ha avuto responsabilità così importanti; e raramente la rotta strategica del regno è stata tanto incerta, considerato il dibattito che scuote la famiglia reale. Le responsabilità del regno sono sia mondiali sia regionali. Perché l’Arabia Saudita continua a essere prima di tutto uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, e potenzialmente di gas. Questa leadership è minacciata dal fatto che il suo principale alleato e cliente, gli Stati Uniti, grazie allo sfruttamento del gas di scisto ha raggiunto l’indipendenza energetica perduta all’inizio del 1954. Ormai il petrolio consumato negli Stati Uniti è, come a quel tempo, prodotto negli stessi Stati Uniti. Per ritrovare la sua quota di mercato, il regno saudita ha quindi intrapreso una radicale politica di diminuzione del prezzo del barile, in modo da annullare la redditività del petrolio americano estratto dal gas di scisto. Questa scelta è stata possibile grazie alle abbondanti riserve valutarie del regno, e ha permesso di indebolire l’Iran sciita e, in modo collaterale, la Russia di Putin.
Anche a livello regionale, il regno si è dovuto confrontare con il suo alleato americano, il cui cambiamento di strategia — la tentazione di allearsi con i Fratelli Musulmani egiziani e l’avvicinamento all’Iran — è stato percepito a Riad come una minaccia permanente. I sauditi, che ai tempi di re Abdullah avevano sostenuto Ben Ali e Mubarak, con re Salman e il suo ministro degli Esteri al-Jubeir, appoggiano l’Egitto del maresciallo al-Sisi, di cui finanziano l’acquisto di armi dalla Francia, partner scelto dal nuovo re perché considerato più affidabile degli Stati Uniti. Salman vuole mettere in piedi una sorta di Nato araba, in grado di intervenire rapidamente nella regione. Fa di tutto per convincere Giordania, Egitto e Marocco del suo progetto. Questa strategia implica anche un atteggiamento più chiaro nei confronti dei jihadisti, che a lungo l’Arabia Saudita è stata sospettata di finanziare, e un impegno contro l’Isis, nonostante sia un movimento a dominante sunnita. Eppure le incertezze restano, o per meglio dire aumentano, per via dei giochi di potere interni al regno, in cui un ampio consiglio di famiglia dibatte costantemente sulle opzioni strategiche, un po’ come fosse un comitato centrale. Nella prospettiva della sua successione, re Salman, ottantenne e a quanto sembra fragile di salute, ha messo in piedi due comitati, le cui competenze in materia di difesa e strategia si accavallano: uno è affidato al figlio Mohammad bin Salman, l’altro al responsabile della sicurezza, Mohammad bin Nayef. Ci si interroga sulla reale possibilità di separare i due ambiti. Bin Nayef oltretutto si è chiaramente espresso contro l’Isis e vuole continuare a sostenere l’Egitto, mentre bin Salman si dice sia più vicino all’idea di una lotta dichiarata all’Iran sciita.
Instabilità. Per il momento, fornendo un chiaro segnale di moderazione, la diplomazia saudita ha accettato l’accordo sul nucleare iraniano, lo stesso che il premier israeliano Netanyahu osteggia con tutte le sue forze. Ma la presenza accanto a Salman di due viceré di fatto può provocare una certa instabilità.
Se così dovesse essere non si tratterebbe di una buona notizia, perché l’Arabia Saudita è un tassello fondamentale per il Medio Oriente, non solo per il suo peso petrolifero, ma anche per la sua capacità di influenza diplomatica ed economica.
Traduzione di Giacomo Cuva