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 2015  agosto 22 Sabato calendario

TUTTI I PERCHE’ DI UN TRACOLLO

C’è un pensiero che fa rimpiangere la nebbia e il freddo, in questa coda d’agosto: nelle ultime nove estati, solo due sono trascorse senza terremoti sui mercati finanziari. Era passata in una calma irreale quella del 2009, dopo la catastrofe dell’anno prima a Wall Street. E anche l’agosto scorso era scivolato via nella speranza che la crisi finanziaria occidentale, quella partita in America nel 2008 e proseguita nell’area euro dal 2010 in poi, fosse finalmente negli archivi della storia. Il resto delle vacanze dal 2007 ad oggi è stato segnato da fasi di panico e scosse: sui mutui subprime , sulle banche americane, sul debito degli Stati europei e alla fine anche sui cosiddetti emergenti, nel 2013 e poi di nuovo adesso.
Dei dieci episodi di massima volatilità finanziaria registrati dagli indici, otto sono di questi anni. Un’intensità e una frequenza del genere non hanno avuto precedenti neanche nella Grande depressione, dunque vorranno pur dire qualcosa: i crolli di Borsa e le svalutazioni monetarie di questi giorni in Cina, Malesia, Brasile o Turchia, in Sudafrica e in Indonesia e Colombia, sembrano sempre di più l’altra faccia della medaglia degli eventi di New York, Londra o Milano di cinque o sei anni fa. Gli uni sono eredità degli altri e varie cinghie di trasmissione li legano fra loro. Dai terremoti di ieri a quelli di oggi un filo rosso per esempio è stato steso dalle grandi banche centrali. La Federal Reserve, la Bank of England, la Banca del Giappone e la Banca centrale europea hanno risposto dal 2009 in poi nel solo modo adeguato per tamponare le ferite: creando moneta e riversandola sui mercati. Lo hanno fatto su una scala senza precedenti. Dalla fine del 2009 ad oggi i bilanci delle banche centrali di Washington, Londra, Francoforte e Tokyo nel complesso si sono espansi di 7.300 miliardi di dollari. È una cifra pari al 10% del prodotto interno lordo della Terra, che negli ultimi otto anni si è rovesciata sull’economia mondiale.
L’obiettivo dei banchieri centrali — centrato in gran parte — era placare il panico, ridurre i tassi d’interesse, evitare una corrosiva deflazione dei prezzi. Ma pochi all’inizio si sono chiesti esattamente dove sarebbero finiti quei soldi, una volta in circolazione. Ora che siamo più vicini al primo aumento dei tassi d’interesse della Fed in dieci anni, lo sappiamo. Lo si vede nei tremori dei Paesi emergenti, dove si teme la fine dei finanziamenti esteri a basso costo che per anni hanno sostenuto intere economie. È in Messico, Colombia, Brasile, Turchia, Indonesia, Malesia, Russia o Kazakistan, che i grandi investitori hanno prestato gran parte di quell’ondata di liquidità, in modo da ottenere rendimenti più alti. Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, negli ultimi cinque anni il debito dei Paesi emergenti è raddoppiato: un balzo di 4.500 miliardi di dollari, non molto inferiore alle somme generate dalle grandi banche centrali dei Paesi ricchi.
Alberto Gallo di Rbs mostra come sia successo: grandi gruppi dell’energia come la russa Gazprom, la cinese Cnooc o la brasiliana Petrobras, o colossi dei minerali come la brasiliana Vale, oppure per un enorme conglomerato come l’indiana Tata, hanno più di metà del debito in dollari. Da ora in poi ogni aumento dei tassi della Fed rischia di schiacciarli, ogni svalutazione delle rispettive monete nazionali minaccia di rendere il loro debito più pesante.
Quella coltre protettrice di denaro però ha permesso al Brasile, o al Messico, o all’Indonesia di rinviare la resa dei conti con i problemi di casa: infrastrutture inadeguate, corruzione dilagante, Stato di diritto inaffidabile. Del resto la crescita era garantita, perché le derrate sudamericane, il rame cileno, i minerali del Sudafrica o gli elettrodomestici della Turchia avevano un compratore di ultima istanza: la Cina. Da lì sono venuti in questi anni gli ordini per metà delle materie prime del mondo, e per molto altro.
Da lì viene però anche il secondo filo rosso che lega la crisi di Wall Street a questi giorni. Nel novembre 2008, il premier di Pechino Wen Jiabao reagì al crash di Lehman Brothers con un maxi-pacchetto di stimolo per evitare che la Cina finisse aspirata nella recessione americana. Varò un piano da 470 miliardi di dollari per costruire nuove città, raddoppiare la capacità produttiva di pannelli solari, auto o acciaio. È stata una stagione di ulteriori eccessi negli investimenti improduttivi: città fantasma, aeroporti vuoti, stock di prodotti accatastati ad arrugginire nei porti della costa. In pochi anni il debito totale della Cina (banche escluse) è salito dal 140% al 248% del Pil. Ormai la seconda economia del mondo è costretta a frenare, e con essa anche la domanda globale di petrolio, rame, grano o legumi, i cui prezzi infatti stanno crollando.
Così l’ingranaggio in questi anni, costruito in reazione al crash di Lehman, ha smesso di spingere il mondo in avanti. Quanto lo tiri indietro, lo diranno i prossimi mesi.