Rosita Capioli, Avvenire 21/8/2015, 21 agosto 2015
FELLINI, LA GUERRA NON È COSA DA CLOWN
In Intervista (1987), imperniato sull’idea di girare un film da America di Kafka, Fellini inscena la magia del suo primo sbarco a Cinecittà, il luogo dove l’immaginazione più stupefacente si concretizza e dove troverà se stesso. Da poco arrivato da Rimini, vi si reca giovanissimo per intervistare una famosa diva. Prende «il tranvetto azzurro che partiva dalla stazione per Cinecittà», e il viaggio assume un’aura mitica, perché l’avvenimento appartiene alla rivelazione estatica del destino. Sul tranway azzurro Fellini giovane – il delicato Sergio Rubini dagli occhi elettrizzati che sostituisce Peter Gonzales Falcon di
Roma – attraversa dei paesaggi come quelli del Beato Angelico, delle campagne ricche come quelle di Brueghel, dove risuona il canto di Reginella bella, delle cascate che sono come quelle del Niagara.
È uno dei suoi miti di fondazione e l’ha raccontato fantasiosamente molte volte. In Fare un film( Einaudi, 1980) spiega: «Facevo il giornalista, scrivevo una rubrichetta sull’avanspettacolo per “Cinemagazzino”, un giornaletto tutto scritto da un sarto, si chiamava Reanda ed era tutto pieno di aghi e di fili sulla giacca. È merito di quel giornaletto se sono venuto una prima volta a Cinecittà. Dovevo intervistare Osvaldo Valenti. Ero io a proporre al direttore- sarto le interviste, proponevo sempre le attrici che mi piacevano, Leda Gloria, Elli Parvo, mi piaceva moltissimo anche Greta Gonda. Ma le interviste con le attrici le voleva fare lui, il direttore, così decisi di intervistare Totò». Se in Intervista realizza l’incontro con la diva, nella realtà, timidissimo, resta a bocca aperta ad ammirare l’immenso set de La corona di ferro (1941), colossale centone di leggende, fiabe, grandiose e mutevoli invenzioni scenografiche, diretto da AI lessandro Blasetti con il gran cast di Osvaldo Valenti, Luisa Ferida, Gino Cervi, Elisa Cegani, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Massimo Girotti, Pietro Germi, e perfino Primo Carnera. Anche l’immagine di Valenti in piedi sulla biga dalle lame affilate, è sopraffatta però da quella soprannaturale di Blasetti, il cui potere tutto sovrasta: «Lassù, a più di mille metri d’altezza, su una poltrona Frau saldamente avvitata alla piattaforma della gru, gambali di cuoio, foulard di seta indiana, un elmo in testa e tre megafoni, quattro microfoni e una ventina di fischietti al collo c’era lui, Alessandro Blasetti o il Regista» ( Re prigioniero di Cinecittà, “La Stampa”, 15 ottobre 1978).
“Cinemagazzino”, cui deve la scoperta di Cinecittà e la propria vocazione di regista, è anche tramite del sodalizio con Aldo Fabrizi, perché il 18 giugno 1939 vi pubblica la sua intervista per il servizio sull’avanspettacolo curato con Ruggero Maccari.
Ma chi era l’emissario del destino, il misterioso sarto appassionato di cinema che teneva sempre degli aghi fra i denti quando parlava ed era tutto un intrico di fili, di nastri, di spilli? Eccolo emergere dal buio del suo ufficio, «un tavolo ingombro di formaggi intaccati, gomitoli di filo, bottiglie di Chianti piene per metà, rotoli di tessuto, in un angolo del laboratorio» ( Josè Luis de Vilallonga, Ho sognato Anita Ekberg, Medusa). Si chiamava Alessandro Reanda, era nato il 5 luglio 1906 a Roma a palazzo Colonna, da Giulio Cesare (nato nel 1866) tra altri quattro fratelli (il più noto, Luigi, ad Arcore fabbricò famose racchette da tennis), e con uno, Giacomo, mandava avanti la sartoria “Fratelli Reanda”, in via Gregoriana 56, come mi racconta il figlio Giulio Cesare, al quale devo questa storia. Il prestigioso atelier risaliva al 1824 e fino al dopoguerra, insieme all’abitazione, fu a piazza Santi Apostoli 61, nel palazzo dei princi- pi Colonna, cui forniva vesti e livree. Confezionava divise per il Corpo diplomatico, gli Accademici, gli Ordini cavallereschi, come il sovrano Ordine di Malta di via Condotti, la Guardia nobile pontificia (su “Life” del 15 dicembre 1952 è pubblicato il disegno di un abito da suora di Giacomo Reanda, “Vatican tailor”, insieme ad altri di Schubert, Barbara, Franco Gentilini, Emilio Greco, per la semplificazione degli abiti religiosi voluta da Pio XII). Nel 1963 Visconti, che nel 1957 vi aveva ordinato le livree per La contessina Giulia di Strindberg al Teatro delle Arti, se ne servì per gli abiti del Principe di Salina e le uniformi nel Gattopardo. Purtroppo Alessandro Reanda non credeva nel proprio mestiere, né pensò a rilanciarlo, quando opportune trasformazioni l’avrebbero reso prezioso, anche nel mondo del cinema. Sommersi dai debiti, alla fine degli anni Sessanta i fratelli chiusero la gloriosa sartoria e vendettero tutto, fino ai preziosi figurini storici (ne restano tracce sui francobolli i costumi dell’Ordine di Malta, acquarelli di Giulio Cesare Reanda). Nel 1949 Giacomo aveva pubblicato Storia di un’arte, di una famiglia in un secolo e mezzo di vita: il 125° anniversario della sartoria Reanda.
Sebbene avesse una sola passione, il cinema, nel 1928 Alessandro aveva frequentato la scuola ufficiali di Spoleto. Appena sposato, nel febbraio 1936, era partito volontario in Etiopia, da dove era tornato nell’agosto con il grado di tenente. Nel 1939, quando “assunse” Fellini, dirigeva dal gennaio la rivista settimanale “Cine teatro radio magazzino”, abbreviato in “Cinemagazzino”. Tutta dedicata al cinema, la rivista era rinata nel novembre 1936 a Roma, da “Magazzino di arte e letteratura”, rivista futurista di Verona. Prima di Reanda era stata diretta da Amedeo Castellazzi, cui era stato affidato l’ufficio stampa di Cinecittà e che fu sceneggiatore, assistente alla regia, produttore (nel 1948 avrebbe girato I figli delle macerie, sulle rovine della guerra e i bambini che vi si aggirano). Sempre nel 1939 Reanda curò con Maria Cecchi Cinecittà, dove compare l’amico Castellazzi, e dove firmò un testo sull’Autarchia nel cinematografo( Italia industriale editrice). Il libretto, oggi merce più che rara, come “Cinemagazzino” (irreperibile se non alla Nazionale di Firenze), documenta la costruzione degli stabilimenti, i locali apprestati dagli architetti, i film con interviste ad attori, registi, tecnici, architetti, operatori, montatori, direttori di produzione. Nonostante la retorica Cinecittà era un’opera notevole e lungimirante. Dopo che i cantieri della Cines di via Veio erano andati in fiamme mentre si girava Ginevra degli Almieri (26 settembre 1935), il 29 gennaio 1936, al motto «La cinematografia è l’arma più forte», la prima pietra degli stabilimenti della Città del Cinema era stata posta con cerimonia scenografica sui 600.000 mq del Quadraro, e il 28 aprile 1937 ci fu l’inaugurazione.
Durante la guerra, Cinecittà fu campo di concentramento di novecento uomini rastrellati nel quartiere. Depredata dai nazisti il 16 ottobre 1943, bombardata dagli alleati nel gennaio 1944, fu requisita il 6 giugno come campo profughi dall’Allied Control Commission (c’è un bel documentario di Marco Bertozzi, Profughi a Cinecittà, 2012). Tornò alle sue funzioni solo nel 1950, ed è allora che diventò il laboratorio e la vera ’casa’ di Fellini. Complice il sarto sognatore, l’aveva conosciuta quando era un luogo nuovo, esotico, la Hollywood italiana, dove sarebbe stata benissimo l’Americadi Kafka: lui era il Karl al quale si manifestava Brunelda – Saraghina. Nel dopoguerra, scampato all’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944 a palazzo Barberini, dove era capitano dell’esercito (rimasto gravemente ferito, fu salvato da qualcuno che lo nascose) Reanda continuò a fare l’organizzatore cinematografico e teatrale (per la rivista di Garinei e Giovannini), collaborando alla “Nuova agenzia stampa“, a ICI, “Informazioni Cinematografiche Italiane”. Morì nel 1988.
In tutti i film di Fellini, la sola rappresentazione della guerra è in Roma, al termine dell’episodio del teatro di varietà della Barafonda. Ne aveva già consumato l’esperienza sui set di Rossellini con Paisà e con Roma città aperta? Lasciò solo a ricordi il viaggio in Libia nel novembre 1942 con Osvaldo Valenti (che aveva intervistato l’anno prima per Reanda, e che insieme alla Ferida sarà fucilato nel 1945), Gino Talamo e la troupe de I cavalieri del deserto (che Fellini aveva sceneggiato da Salgari con Vittorio Mussolini), il bombardamento e il fallimento dell’impresa, il ritorno carambolesco in Sicilia con un aereo militare tedesco, risalendo l’Italia con mezzi di fortuna; lo scampato arruolamento perché venne salvato dalle bombe su Bologna; la desolazione nel 1946, di ritorno a Rimini, la città sulla Linea gotica più colpita d’Italia, quando vide solo macerie e sentì risuonare su di esse il richiamo di nomi strani, curiosi: «Duilio, Severino»!... La guerra era stata introiettata come la morte. Mentre a Cinecittà ricominciava sempre la vita.