Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore 21/8/2015, 21 agosto 2015
NON SOLO CINA, FED E PETROLIO: COSA MINACCIA I BRICS
La frenata della Cina, il crollo dei prezzi di petrolio e materie prime, la possibilità di un rialzo dei tassi americani da parte della Federal Reserve. È una manovra a tenaglia forse senza precedenti quella che rischia di strangolare le economie di molti Paesi emergenti, quegli stessi che paradossalmente non più di qualche mese fa venivano (e in parte lo sono ancora) reputati più «sicure» dalle agenzie di rating rispetto a qualche periferico europeo.
Delle conseguenze che potrebbero esercitare in queste aree del mondo movimenti di mercato e non - quali una svalutazione dello yuan, un’ulteriore discesa delle quotazioni del greggio o un apprezzamento del dollaro - si fa un gran parlare in questi giorni, spesso però si tende a considerare questi fenomeni che si avviano a colpire gli emergenti quasi alla stregua di fulmini a ciel sereno, variabili esogene e quindi poco controllabili. Meno importanza invece si dà alle fragilità interne che rendono i Paesi maggiormente vulnerabili a shock più o meno prevedibili.
È evidente, per riciclare un’espressione utilizzata per i «periferici» europei, che qualcuno non abbia «fatto i compiti a casa» e non abbia sfruttato a dovere il momento in cui tutto o quasi girava a favore - dai prezzi relativamente elevati delle commodity all’enorme afflusso di capitali esteri in cerca di rendimenti nell’era dei tassi zero - per sistemare davvero le finanze pubbliche e ridurre gli squilibri tipici di uno sviluppo rapido e poco omogeneo.
Non è insomma colpa soltanto della Cina, della Fed o di chi «congiura» per ridurre il prezzo del petrolio se il mondo emergente rischia la deriva. Lo conferma anche il Brasile, da tutti additato come il più in difficoltà o a rischio: un Paese che fra un mondiale di calcio e un’olimpiade ha basato lo sviluppo su un piano di stimoli fiscali aggressivo che ha spedito alle stelle il debito pubblico e quello privato; che è costretto ad affrontare al tempo stesso una fase di recessione, di aumento della disoccupazione e di elevata inflazione nel momento in cui la classe politica rischia di finire travolta da una serie di scandali oltre che dall’insoddisfazione della popolazione.
Non è l’unico Paese in cui le tensioni politiche sono a livello di allarme il Brasile: su questo piano poco invidiabile lo accompagna la Turchia che non a caso, insieme a Sudafrica e in misura minore a Indonesia, viene additata fra gli emergenti più a rischio se si considerano, oltre all’esposizione alla Cina, anche parametri quali la dipendenza dai flussi di investimenti dall’estero, il debito pubblico in mani straniere, il doppio deficit di bilancio e corrente e la dinamica dei prezzi.
Curiosamente questo quartetto faceva parte anche dei fragile five, espressione coniata nel 2013 da Morgan Stanley per definire i Paesi già allora più vulnerabili a un’inversione dei flussi di investimento legata a un atteggiamento meno espansivo della Fed. All’appello manca l’India, che qualche sforzo in questi ultimi due anni per ridurre gli squilibri lo ha fatto grazie alla banca centrale guidata dall’ex-Fmi Raghuram Rajan. Sfuggire alla morsa di Cina e Fed resta difficile, ma alleviarne l’impatto non era forse così impossibile.