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 2015  agosto 21 Venerdì calendario

BOLLA IN CINA, CONTO DA 3.600 MILIARDI

Come starà andando la Borsa cinese? È questa la prima domanda che ormai gli investitori europei si pongono ogni mattina al risveglio. Perché il listino di Shanghai sta procedendo da due mesi a questa parte ad altissima volatilità. Impattando inevitabilmente anche sui mercati occidentali che all’apertura si trovano a fare i conti (per questioni di fuso orario) con l’imminente (e spesso turbolenta) chiusura delle piazze orientali.
La giornata di ieri non ha fatto eccezione. L’indice principale della piazza di Shanghai ha archiviato gli scambi con una flessione del 3,4%, fermandosi a 3.665 punti, accumulando oltre l’8% di perdite nel mese. Da massimi toccati a fine giugno il listino ha perso il 43%, riducendo la capitalizzazione di 3.600 miliardi di dollari. Non va dimenticato che il bilancio da inizio anno (+13%) e nell’ultimo anno solare (+63%) resta positivo. Ma le proporzioni della tempesta estiva vanno al di là di quella che può essere definita una fisiologica correzione da eccessi (che normalmente viene considerata nell’orbita di un ribasso del 20%). Nei soldi andati in fumo (intesi come minor valore di mercato ai prezzi attuali delle azioni) c’è anche la disperazione degli ordinary citizen (si calcola che in Borsa abbiano investito anche 90 milioni di famiglie cinesi) che negli ultimi mesi hanno iniziato a comprare azioni, attratti dalla performance senza precedenti degli indici (+154% tra maggio 2014 e giugno 2015) e che per investire hanno addirittura chiesto soldi in prestito.
Il ribasso di ieri è arrivato nonostante la People’s Bank of China abbia provato per l’ennesima volta a intervenire sul mercato acquistando pronti contro termine (reverse repo), per controllare la fuoriuscita di capitali e per dare ossigeno alle banche. Nel complesso, in questa settimana la banca centrale cinese ha immesso sul mercato 260 miliardi di yuan (ovvero 40 miliardi di dollari): di questi,150 attraverso un pronti contro termine a 7 giorni al tasso di interesse dell 2,54%, e 110 miliardi sotto forma di un prestito alle banche a 6 mesi al 3,35%.
Le manovre della PBoC non sembrano destinate ad esaurirsi. Secondo un sondaggio di Bloomberg, gli interventi della banca centrale cinese per stabilizzare il cambio - dunque non solo deprezzare lo yuan ma anche apprezzarlo - si tradurranno in una flessione delle riserve straniere detenute dall’istituto di 40 miliardi al mese, fino alla fine dell’anno.
Il nuovo movimento tellurico sui listini cinesi è ripreso - dopo una decina di sedute di relativa stabilità - la scorsa settimana quando la PBoC ha deciso di svalutare lo yuan nei confronti del dollaro in tre tranche. Una mossa che gli esperti giudicano corretta, considerata la difficoltà di Pechino nel continuare a mantenere un cambio stabile nei confronti del dollaro a fronte dell’esigenza di adottare una politica monetaria opposta (e più espansiva) rispetto a quella degli Usa (che si avviano a fatica verso una stretta monetaria). Gli analisti leggono positivamente anche l’idea di un atteggiamento più aperto al mercato e meno dirigista da parte della Cina. Nonostante questi aspetti positivi (nel medio termine) nel breve periodo le recenti svalutazioni dello yuan hanno innescato un pericoloso circolo vizioso che coinvolge anche i Paesi emergenti. Perché i mercati temono che il rallentamento della seconda economia del mondo possa essere più ampio di quanto annunciato dalle autorità politiche. Questo timore sta penalizzando oltremodo le quotazioni del prezzo del petrolio (che viaggia sui minimi da 6 e anni e mezzo e che già procedeva in un trend discesista per via dell’eccesso di offerta) e delle materie prime. A cascata, i Paesi esportatori di materie prime stanno soffrendo il calo dei prezzi e reagiscono svalutando le rispettive monete. È accaduto ieri in Kazakhstan - che ha sganciato il tenge dal dollaro accusando una svalutazione monetaria del 23% - e mercoledì in Vietnam. Gli analisti non leggono nella svalutazione dello yuan l’inizio di una guerra valutaria. Ma difatti il calo del petrolio e delle materie prime concomitante sta spingendo le valute di molti Paesi emergenti sui minimi di tutti i tempi, gettando incertezza anche sull’entità della ripresa economica globale. Non a caso ieri Citigroup ha tagliato le stime sulla crescita del Pil mondiale del 2016 da +3,3% a +3,1%. E fino a che dalla Cina non arriverà una schiarita - sulle effettive dimensioni del rallentamento economico - le turbolenze sui mercati e sui prezzi delle commodities potrebbero proseguire. Con conseguenze già evidenti anche in Europa, che si sta preparando alla “deflazione importata” dai Paesi emergenti. Ieri il tasso dello swap sull’inflazione a un anno nella zona euro è sceso a -0,0375. Ciò vuol dire che per la prima volta da quando a marzo la Banca centrale europea ha allargato il piano di quantitative easing ai titoli di Stato, le aspettative sui prezzi nella zona euro a un anno sono tornate in territorio negativo, sul pronostico di un’ulteriore discesa dei prezzi dei beni energetici. Il nuovo scenario rischia di complicare le strategie della Bce il cui obiettivo è riportare in tempi ragionevoli l’inflazione vicina al 2%. Ma la variabile Cina non era stata considerata.