Donato Masciandaro, Il Sole 24 Ore 21/8/2015, 21 agosto 2015
L’INERZIA FED E LA GUERRA DELLE VALUTE
Nessuna sorpresa: anche i verbali della banca centrale americana (Fed) hanno confermato che avremo ancora un dollaro senza regole, che provocherà instabilità sui mercati finanziari e dei cambi. Ma la volatilità dei cambi non interessa ai banchieri centrali, finché non diviene un problema politico. Oggi la Fed non ha alcun interesse a reintrodurre regole di condotta sul dollaro, men che meno per ragioni legate al tasso di cambio con la moneta cinese, il renminbi. Perché il cambio è il cavallo di Troia con cui i politici possono influenzare pesantemente l’azione della banca centrale. Sia a Washington che a Pechino.
La pubblicazione dei verbali della riunione della Fed di luglio, con cui la banca centrale americana ha continuato a non dare alcuna indicazione sul futuro, prossimo e remoto, dei tassi di interesse, non ha riservato sorprese. Sarebbe stato strano il contrario: un dollaro senza regole è oggi la scelta più conveniente per la banca centrale americana. In generale, i banchieri centrali sono avversi al rischio: amano lo status quo, a meno che non ci sia una emergenza da affrontare. Allora anche darsi una regola diventa conveniente.
La Fed si diede una regola di politica monetaria quando dovette affrontare l’emergenza inflazione, a partire dalla fine degli anni ottanta. La regola aveva due pilastri: la banca centrale deve essere indipendente, ed i tassi di interesse devono contrastare i rischi inflazionisti.
Per avere una banca centrale indipendente, occorrono due ingredienti generali: liberi movimenti dei capitali e completa flessibilità dei tassi di cambio. La completa flessibilità del tasso di cambio è una componente essenziale: il tasso di cambio infatti, in qualunque regime istituzionale, è sempre nelle mani della politica, quindi minerebbe l’indipendenza della banca centrale. Anche negli Stati Uniti, la definizione del regime di cambio e la relativa politica sono nelle mani del Dipartimento del Tesoro, e la Fed diviene un mero esecutore di ordini. Negli anni ottanta, per essere credibile nella sua lotta anti inflazione la Fed doveva essere e sembrare completamente indipendente dai politici: l’autonomia della politica monetaria passava anche dalla fine di una politica attiva sul tasso di cambio. In tal modo il secondo pilastro della indipendenza della banca centrale poteva essere disegnato con la massima discrezionalità: una regola sui tassi di interesse, per cui essi reagivano ai rischi di inflazione presenti e prospettici. Traduzione: ogni surriscaldamento dei prezzi, o della crescita potenziale, doveva essere seguito da una politica monetaria restrittiva; al contrario, nel caso di debolezza della dinamica delle variabili nominali e reali. Questo accadeva a Washington in modo sistematico dal 1985 al 2002: la regola monetaria si accompagnava ad ottimi risultati macroeconomici, cioè crescita economica senza inflazione.
E a Pechino? La banca centrale cinese (PBC) dipendeva – e dipende – dal governo comunista, e l’economia cinese stava iniziando la sua impetuosa crescita. In un Paese emergente con una banca centrale dipendente, il tasso di cambio è strumento politico per eccellenza: la politica monetaria non può essere autonoma, i movimenti dei capitali non possono essere liberi, quindi il cambio può essere finalizzato agli obiettivi del governo. Il governo cinese fissava così un tasso di cambio fisso nei confronti del dollaro, con il duplice obiettivo di agevolare le esportazioni ed accumulare riserve in dollari; allo stesso tempo, l’accumulo di riserve, che tende ad aumentare la moneta in circolazione, non creava effetti sui prezzi interni in Cina. Così, nello stesso periodo in cui Washington seguiva con successo la regola monetaria interna, Pechino seguiva con successo la regola esterna di cambio. L’incantesimo si rompe nel periodo che va dal 2003 al 2006. La Fed, di fronte all’accumularsi dei segnali di tensione macroeconomica – squilibri negli scambi commerciali, aumenti dei prezzi delle attività reali e finanziari – avrebbe dovuto invertire la politica monetaria in senso restrittivo. Non accade: vinse l’inerzia e la politica monetaria abbandonò la regola interna, rimanendo espansiva. L’eccesso di creazione di dollari tracima su tutti i mercati. A Pechino, a partire dal 2003, l’aumento dell’accumulo di riserve in dollari registra un balzo eccezionale, e con esso la creazione di moneta e l’inflazione. Dal 2003 al 2009 la PBC prova a sterilizzare l’accumulo di riserve in dollari, con operazioni pari al 41% dell’ammontare delle riserve stesse, accompagnate da 19 manovre restrittive sulle riserve bancarie. Ma il cambio nominale fisso con il dollaro non è oramai più difendibile; in termini reali, il renminbi si sta già apprezzando da prima del 2003, e nel 2005 la banca centrale cinese inizia anche una politica di rivalutazione nominale, che non è mai terminata - se si esclude il periodo tra luglio 2008 e giugno 2010, nel momento più intenso della Grande Crisi – fino alle novità nel regime di cambio annunziate nei giorni scorsi.
L’abbandono della regola monetaria da parte della Fed prosegue tuttora. Lo forza dello status quo ha colpito ancora: dall’inizio della Crisi la Fed ha adottato la politica dei tassi zero, e non la lascia, anche se la congiuntura è cambiata. Con la ripresa economica, applicando la regola monetaria i tassi avrebbero dovuto salire a partire dal 2011. Certo assumendosi dei rischi di impopolarità; in questi casi, la Fed – ma non solo – preferisce il quiete. Quindi per oggi niente regole per il dollaro. Con tutto quello che ne segue per i cambi. I problemi potrebbero essere solo posticipati. Ma, come ci ha insegnato Rossella O’Hara, domani è sempre un altro giorno.