Fausto Biloslavo, Panorama 20/8/2015, 20 agosto 2015
IL CASO MARÒ ALL’ULTIMO APPELLO
[Daniel Bethlehem] –
Dal documento di 70 pagine che gli indiani hanno depositato ad Amburgo, Girone e Latorre escono già condannati, quasi che non ci sia bisogno di un processo: «I due marò» vi si legge «hanno usato le loro armi automatiche contro il peschereccio St. Anthony senza alcun avvertimento. Un pescatore è stato colpito alla testa e un altro in maniera fatale, al petto».
Contro questa versione dei fatti il nostro ambasciatore all’Aya, è agghiacciante», contesta. Poche ore dopo la rappresentante di Delhi, Neeru Chadha, in abiti tradizionali, si rivolge al presidente russo della corte, Vladimir Golitsyn, con queste parole: «La verità è che i marinai italiani a bordo di una nave mercantile (...) in un giorno limpido, con visibilità eccellente, hanno sparato per uccidere due persone su una piccola imbarcazione».
La battaglia in aula si scalda subito. L’Italia, che ha presentato un’istanza di 27 pagine per strappare agli indiani la giurisdizione sul caso, sostiene che dopo tre anni e mezzo trascorsi senza processo e «in mancanza di un vero capo d’accusa», le restrizioni alla libertà dei due fucilieri di Marina sono «arbitrarie e ingiustificabili», potrebbero avere «conseguenze irreparabili sulla loro salute», e costituiscono perciò «una violazione dei loro diritti fondamentali».
Per dimostrare che i marò dovevano essere processati in patria, Sir Daniel Bethlehem, il baronetto inglese che è l’avvocato di punta di parte italiana, prende la parola con tanto di toga nera e parrucchino, e sottolinea «l’importanza dell’apertura di un’inchiesta da parte del procuratore militare del Tribunale di Roma con l’ipotesi di omicidio» per la morte dei due pescatori indiani. Con questo respinge le accuse indiane all’Italia di non aver mai condotto alcuna seria indagine sul caso. «La realtà è diversa» aggiunge Bethlehem. «Perché il procuratore militare ha inviato numerose lettere di rogatoria all’India, chiedendo cooperazione e assistenza nell’indagine. Ma queste richieste non hanno mai ricevuto risposta».
che «l’Italia ha presentato il caso sotto una falsa luce». Parla del «fuoco irresponsabile delle armi automatiche dei due marinai italiani». Sostiene che «i fatti sono confermati dalle dettagliate indagini» indiane e «dal semplice fatto che l’Italia ha già pagato un risarcimento ai familiari delle vittime e al proprietario del St. Anthony». L’ambasciatore Azzarello definisce «deplorevole che l’avvocato dell’India abbia cercato di dipingere il risarcimento come un’ammissione di responsabilità da parte dei marò». Ma il legale francese insiste: accusa addirittura il governo di Roma di «avere scambiato la presunzione d’innocenza con la totale assoluzione».
Dentro o fuori dalle acque indiane?
Il contrasto si accende. La rappresentante indiana passa al contrattacco: Chadha sostiene che «tutta l’India è sorpresa dal tono e dal tenore degli interventi italiani» e si dice scandalizzata dal fatto che i marò siano «descritti come vittime, ignorando i due pescatori che hanno perso la vita».
L’avvocato ricorda che il St. Anthony si trovava legittimamente nella «zona economica esclusiva indiana», anche se in realtà è la sola India a riconoscerla una sua giurisdizione a una distanza di 200 miglia dalla costa. Aggiunge che il peschereccio si trovava «a circa 20,5 miglia da terra quando è stato investito dalle raffiche sparate da due persone in uniforme a bordo in una petroliera a circa 200 metri».
Per la prima volta italiani e indiani entrano nel merito dell’incidente del 15 febbraio 2012, ed è subito muro contro muro. «È un dato di fatto che sia avvenuto ben al di là delle acque territoriali indiane» spiega Bethlehem, mostrando accurate carte nautiche. E denuncia che «la Enrica Lexie è stata intercettata in acque internazionali (a 36 miglia dalla costa, ndr) da un aereo e da imbarcazioni armate della Guardia costiera indiana». Il legale contesta pertanto «l’esercizio di potere coercitivo su una nave battente bandiera italiana e su marinai italiani in servizio».
Ma i rappresentanti di Delhi criticano questa descrizione dei fatti: la definiscono «tanto semplice quanto fuorviante». Sostengono che il giorno dell’incidente «non c’era alcun allarme pirateria nella regione» e insistono sul fatto che «il St. Anthony non assomigliava affatto a un barchino di pirati».
con un’email creata come copertura per giustificare la loro azione, che avrebbero avvistato sei uomini armati a bordo del St. Anthony». Il team di Delhi cita in proposito la testimonianza di due membri indiani dell’equipaggio della Lexie e quella dello stesso comandante del mercantile, Umberto Vitelli. L’avvocato Pellet mostra poi una carta della Nato e sostiene che «l’Oceano al largo dell’India quel giorno era virtualmente libero dai pirati». Infine, consegna al Tribunale di Amburgo due novità: il 16 febbraio 2012 la nostra ambasciata a Delhi avrebbe informato le autorità indiane con una nota verbale che «il team della Marina italiana (composto da sei marò, ndr) ha le prove fotografiche del vascello pirata durante l’attacco». Ma aggiunge che quelle immagini, purtroppo, non sono mai state presentate in sede legale. Pellet rivela inoltre che il 7 febbraio 2012, cioè otto giorni prima della sparatoria, il ministero degli Esteri indiano aveva informato l’ambasciata italiana a Delhi del fallimento dei colloqui intavolati per trovare un accordo sul passaggio al largo dell’India dei team di protezione a bordo di navi mercantili come la petroliera Lexie. Insomma, sulla materia c’era già confusione nel 2012.
Ma Bethlehem smonta la tesi dell’improbabilità di un attacco pirata alla nave difesa dai marò. Per farlo usa alcuni documenti ufficiali di Delhi, che dimostrano come «a 12 miglia dalle coste indiane fosse stata tracciata una zona ad alto rischio pirateria». Aggiunge, polemico: «Vari rapporti segnalano che mercantili di passaggio hanno scambiato pescherecci per barchini dei pirati, sparando colpi di avvertimento». La prova più evidente proviene da «un secondo attacco pirata riportato nella zona (quella stessa area di mare battuta dalla Enrica Lexie con a bordo i marò, ndr) circa sei ore più tardi, con 20 banditi su due barche si sono avvicinati a una nave all’ancora, tentando di salire a bordo».
Più di tre anni senza un vero processo
L’avvocato-baronetto torna in aula la mattina dell’11 agosto e difende a spada tratta i marò. «Non si tratta solo del fatto che, a oltre tre anni di distanza dai fatti, non sono stati ancora accusati di alcun reato né tantomeno giudicati» sbotta Bethlehem. «I marinai italiani respingono ogni accusa degli indiani e ribadiscono la loro innocenza. L’incidente è stato causato da quello che sembrava un attacco pirata. E dall’Enrica Lexie sono state eseguite correttamente tutte le procedure previste in caso di attacco».
L’offensiva contro Delhi è dura: «In questo Tribunale» conclude Bethlehem «abbiamo ascoltato una marea crescente di retorica, con l’accusa all’Italia di dissimulazione, di sonestà e ritardi. (...) È un metodo sbagliato, pericoloso, e non dovrebbe essere tenuto in considerazione». L’avvocato inglese si dice convinto che gli affondi indiani siano soltanto «il tentativo di creare un pregiudizio, di macchiare l’Italia come concorrente abusivo davanti a questo tribunale. Ma è un gioco costruito su un castello di carte».
Girone è «prigioniero» di Delhi
L’ambasciatore Azzarello solleva quindi il caso di Salvatore Girone, da sempre trattenuto in India «come garanzia», mentre Massimiliano Latorre è in permesso sanitario in Italia dopo un ictus che lo ha colpito alla fine dell’agosto 2014. «La descrizione
Insomma, lamenta Roma, Girone «viene trattato come un ostaggio, costretto a restare in India nonostante non sia stato ancora incriminato». Sir Bethlehem ripete la tesi dell’«ostaggio» in aula, scatenando una reazione rabbiosa: «L’India non ha mai praticato alcun ricatto, e insinuarlo è odioso» gli risponde il francese Pellet. Nei loro documenti, gli indiani sostengono che «Girone non può lamentarsi della sua permanenza a Delhi (...), dove vive nel comfort nella residenza dell’ambasciatore italiano, e sembra godere di un’esistenza quieta e comoda».
A porte chiuse vengono poi presentati in aula i referti medici relativi a Latorre e Girone, e le relazioni di alcuni neuropsichiatri infantili sui danni psicologici subiti dai figli dei due fucilieri. Gli indiani sono inflessibili: la salute di Latorre, a loro dire, «potrebbe già migliorare nei prossimi mesi» consentendogli di tornare a Delhi. E criticano l’Italia per le sue «richieste compassionevoli». Pellet prefigura addirittura reazioni di piazza se la Corte dovesse dare ragione all’Italia: «Sarebbe una misura ingiusta, che verrà percepita come illegittima dalla pubblica opinione indiana».
Per Girone, il francese sostiene: «Se autorizzato a tornare in Italia è altamente improbabile che rientri in India per subire il processo». Su 36 mesi dall’incidente in alto mare, Pellet ricorda che i marò sono stati in carcere solo 43 giorni. L’internazionalista Guglielmo Verdirame gli risponde con numeri più chiari: «Da 1.269 giorni i marò non sono stati ancora formalmente incriminati».
Chi ha colpa della «melina» giudiziaria
Un altro campo di scontro riguarda proprio i tre anni e mezzo di odissea giudiziaria subiti dai marò. Secondo Delhi è tutta colpa delle «tattiche dilatorie» italiane. Verdirame respinge al mittente le accuse citando il presidente della Corte suprema indiana che nel dicembre scorso lamentava: «Neppure l’atto di accusa è stato depositato».
Un altro esperto inglese di parte indiana, Rodman Bundy, sostiene che «l’Italia e i marò hanno usato più e più volte, anzi si potrebbe dire che hanno abusato, del processo giudiziario indiano».
Le promesse italiane tradite
La battaglia si fa ancora più dura quando la rappresentante indiana, Chadha, denuncia al Tribunale che «l’India nutre legittimi timori sulla capacità dell’Italia di mantenere le sue promesse, avendo in precedenza tentato di rinnegarle per ben due volte». L’accusa è di avere tradito la parola data sulla testimonianza degli altri quattro fucilieri di Marina a bordo della Lexie, che il governo di Roma non ha mai fatto tornare a Delhi. E sulla «pantomima» del governo Monti, che nel 2013 prima sembrava voler trattenere Latorre e Girone in Italia e poi li ha rispediti in India. Ma anche questo attacco viene rintuzzato da Bethlehem: «Sul primo punto» dice l’avvocato «l’India dovrebbe conoscere meglio i suoi stessi codici, perché come previsto dalla legge indiana i quattro testimoni sono stati messi a disposizione per una deposizione in videoconferenza».
Gli indiani insistono.
dal loro dovere». Pellet insinua: «Curioso, tutti e quattro...». L’ambasciatore Azzarello chiude la polemica garantendo al Tribunale, che «se richiesto dalla sentenza finale (dell’arbitrato, ndr), Latorre e Girone torneranno in India». Quindi invita i giudici di Amburgo a «decidere le condizioni più appropriate» di controllo dei due marò se l’istanza preliminare italiana di sottrarli agli indiani venisse accolta.
I negoziati segreti
Nei due giorni di udienza ad Amburgo vengono alla luce anche negoziati segreti con l’India. Bethlehem racconta che dal gennaio 2013 «l’Italia ha compiuto strenui tentativi diplomatici di risolvere la controversia con il governo indiano». Tutti sono falliti, ma a metà 2014, con la vittoria elettorale di Matteo Renzi da noi, e con quella di Narendra Modi in India, «l’Italia ha preparato una nuova, dettagliata, proposta».
«Solo verso la fine del maggio di quest’anno è risultato evidente, oltre ogni dubbio, che una soluzione negoziale non sarebbe stata possibile» spiega Bethlehem. «Di fronte a
questa impasse, l’Italia ha avviato la procedura dell’arbitrato».
L’ultima trattativa in aula
Ma anche nell’infuocata aula del Tribunale di Amburgo, paradossalmente, si continua a trattare: con due nuove offerte opposte, da parte italiana e indiana. Bethlehem ricorda che, su richiesta della Corte suprema indiana, «è stata depositata dall’Italia una cauzione di 300 euro mila come garanzia per ognuno dei due marò».
l’avvocato Pellet, il quale critica la proposta come «ingannevole, un affare folle». Il francese lancia una controfferta, difficilmente accettabile. Se l’Italia ritirasse l’appello ad Amburgo e accettasse la giurisdizione di Delhi, suggerisce, «l’India sarebbe pronta a garantire che la sentenza della Corte speciale venga emessa nel giro di quattro mesi».
Gli indiani si oppongono non solo alle richieste provvisorie dell’Italia, come la liberazione di marò, ma allo stesso procedimento arbitrale davanti al Tribunale di Amburgo. Il caso, secondo Pellet, «ha solo un vago collegamento con il diritto del mare (...) Questo solleva seri dubbi sulla giurisdizione della Corte arbitrale di Amburgo, richiesta dall’Italia» che avrebbe «scelto il foro sbagliato».
Per gli indiani «il fatto che l’Italia abbia aspettato più di tre anni» per appellarsi all’arbitrato «attesta la mancanza di urgenza» sul caso marò. Nelle battute finali, Pellet non risparmia critiche al governo Renzi: «La fretta con cui l’Italia ha portato avanti il caso non può essere giustificata in alcun modo. A meno che non si tratti di ragioni di politica interna o di propaganda elettorale». Ora la parola passa ai giudici