Enrica Brocardo, Vanity Fair 19/8/2015, 19 agosto 2015
TIZIANO FERRO. DA CENTRALE A SAN SIRO –
Qualche piano sopra di noi, le modelle si stanno vestendo. Il set, invece, è già pronto, sulla terrazza dell’hotel ME Milan Il Duca, con una vista perfetta sulla Torre Unicredit che ha ridisegnato lo skyline della città.
Tiziano Ferro è arrivato in auto da casa sua. «Milano è l’unica città in Italia in cui non mi sento in provincia», mi aveva detto in un’intervista di qualche anno fa.
E me lo conferma anche oggi prima di tornare indietro nel tempo, a quel giorno in cui arrivò per la prima volta alla Stazione Centrale. «Avevo 18 anni, ero venuto a fare un provino da corista. Ero spaesatissimo, mi sentivo solo, ma al tempo stesso qualcosa mi diceva che prima o poi sarei venuto a vivere qui. Una sensazione di pancia. Presi la metropolitana e, quasi per caso, scesi alla fermata di Duomo. Sbucai proprio dall’uscita sulla piazza ma dando le spalle alla cattedrale. Quando mi girai e la vidi, provai un brivido fortissimo».
A Milano, a San Siro, Tiziano Ferro ha fatto due date del suo primo tour negli stadi, lo scorso luglio, e tornerà per altri due concerti – al Mediolanum Forum di Assago – a novembre in occasione del suo European Tour 2015.
Sembra felice e rilassato. Come era apparso anche su quel mega palco. A suo agio come mai prima.
È così?
«Prima di esibirmi dal vivo, sono sempre un po’ in ansietta. Soffro la vita in anticipazione. Ma fin dalla prima data a Torino, me la sono goduta, non vedevo l’ora di salire per esibirmi di nuovo».
Sbaglio, o ha finalmente superato anche le insicurezze che ha sempre avuto nei confronti del suo aspetto? Il retaggio di quei famosi 111 chili?
«Se ti senti bene dentro, lo trasmetti anche all’esterno. Penso a tutti quegli attori anche un po’ bruttini che sono diventati sex-symbol: è fame di vita, un erotismo che non ha niente a che vedere con la bellezza, l’altezza, il peso, semmai con la testa, le idee e la voglia di comunicarle. Non mi ero mai sentito così bene».
Si è dato una spiegazione?
«Ho provato a razionalizzare: forse per un insicuro come me, la dimensione dell’evento è stata così massiccia da superare le paranoie. “Non può essere un caso che tutte quelle persone abbiano scelto quella sera per essere lì con me”. Detto questo, su un palco a torso nudo non mi ci vedrà mai. Ci sono tanti bei vestiti, usiamoli».
Parliamo di tutta quella gente, del suo pubblico?
«Il bello dei concerti è che puoi incontrare chi ascolta le tue canzoni. Ho avuto ancora una volta la conferma che la gente è molto più profonda, sensibile, aperta di quello che ci vogliono far credere».
I suoi fan sono per la gran maggioranza donne.
«Perché tutte quelle caratteristiche che elencavo prima le donne le hanno in maniera ancora più spiccata. E in più la capacità di discernere, di saper leggere le informazioni. Hanno più forza di volontà e persino fisica, quando è necessario. Mi fido più delle donne che degli uomini, ho più amiche che amici maschi. Il mio pubblico è soprattutto femminile? Le dico la verità, non mi stupisce affatto».
Vale anche in campo professionale?
«Praticamente io, a parte il mio manager, lavoro solo con donne. L’anno scorso cercavamo qualcuno che ci desse una mano e abbiamo messo un annuncio all’università, a Milano. Il 90 per cento di quelli che hanno risposto erano ragazze. E già lì vedevi la sveltezza nel cogliere un’occasione. Ma poi, durante i colloqui, ci siamo resi conto che non c’era paragone: gli uomini ti domandavano per prima cosa quanto si guadagnava e quanti erano i giorni di ferie. Le donne dicevano: “Quando si inizia?”».
Eppure immagino che prima di fare coming out una delle sue preoccupazioni fosse quella di perdere un po’ di seguito femminile.
«Onestamente? No. Perché credo che il peso sentimentale che c’è nelle mie canzoni trascenda il fatto di declinare un pronome al femminile o al maschile. Spesso trattiamo l’amore come qualcosa di privato, da vivere quasi segretamente. E invece io, 15 anni fa, ho fatto un’altra scelta: ho messo la mia vita a disposizione degli altri».
Che cosa vuol dire esattamente?
«Che, piano piano, ho rivelato tutto di me: amore, lacrime, fragilità, insicurezze. Ho cominciato a fare musica tra la fine degli anni Novanta e il Duemila, quando la musica era tutta un remix, un ciuffo biondo. Io, con quel genere, non c’entravo niente. Non voglio fare paragoni, ma negli anni Sessanta-Settanta tutti dicevano di ascoltare i Pink Floyd, i Rolling Stones, i Beatles. Però, in testa alle classifiche chi c’era? Battisti. Alla fine, quel genere di onestà e trasparenza nel raccontare i sentimenti magari non era considerato cool, però metteva d’accordo tutti».
L’amore è una cosa semplice. Ed è anche pubblica?
«Perché un musicista può essere sciupafemmine, ma non gay? Chi l’ha detto? Perché un cantante paparazzato ogni volta con una modella diversa è un figo? Sono cliché, stronzate da cui bisogna uscire. E quando decidi che non ha senso seguire queste “regole”, ti rendi conto che la gente è disposta ad ascoltarti e che capisce. Lo dico sempre a quegli amici, e ce ne sono ancora tanti, convinti che nel loro ambiente, per il loro tipo di carriera, dichiararsi omosessuali sia un handicap. “Basta che tu lo spieghi con grande semplicità a chi ti sta intorno, vedrai che la stima che hanno nei tuoi confronti non cambierà”».
Ma è davvero così necessario raccontarsi?
«Guardi, lo ripeto da quando ho fatto coming out proprio su Vanity Fair, per me la parola chiave di tutto è condivisione. Mentre un termine come tolleranza mi fa incazzare, e peggio ancora “accettazione”. Accettazione è quello che si può provare nei confronti di una malattia incurabile. Due persone che si amano si sposano e organizzano una festa perché la cosa più bella è condividere con gli altri quell’esperienza. L’amore trova la sua massima espressione quando si manifesta all’esterno. Ci siamo ormai sufficientemente liberati sessualmente, ma non si parla mai di liberazione sentimentale. A me interessa più l’amore del sesso».
Eppure la dimensione del sentimento è ancora legata principalmente all’universo femminile.
«O forse gli uomini che si sentono in imbarazzo a parlare di sentimenti sono felici di trovare in me un “portavoce” e le mie canzoni, magari, le cantano a squarciagola a casa, così non lo sa nessuno. Mi piace che i concerti allo stadio siano anche un po’ questo, che abbiano una funzione liberatoria. Se tra 50 mila persone ti scende la lacrima, chi se ne accorge? Ne hai bisogno e te lo concedi, mentre a una tavolata di amici non lo faresti mai. In tanti, insospettabili, mi hanno “confessato” che ascoltando L’amore è una cosa semplice una lacrimuccia l’hanno versata».
Anche lei si è commosso quando, a San Siro, ha letto la lettera di un suo fan.
«Mi piaceva perché il messaggio era applicabile a ogni forma di relazione. A un certo punto, diceva: “Non togliere mai il disturbo”. Ovvero: non pensare che potresti dare fastidio a qualcuno con il tuo amore. Non vale solo per gli omosessuali, ma per tutti quelli che vogliono stare insieme in un mondo che non è costruito a misura di coppie. Mi piace poter dire che siamo tutti sulla stessa barca, uomini, donne, gay, etero, e farlo in eventi che non sono “esclusivi”. Sono felice che esistano organizzazioni e manifestazioni a favore dei diritti dei gay. Ma io preferisco dire a tutti, senza distinzioni, che abbiamo gli stessi problemi. Voglio aprire un dialogo con tutti perché è ovvio che se certe cose ce le diciamo fra di noi, ci troviamo d’accordo. Mentre ci sono molte persone alle quali mancano le informazioni di base».
Sull’omosessualità?
«Ho conosciuto ragazzi che non sanno chi siano davvero i gay. L’immaginario comune al quale sono abituati identifica gli omosessuali con individui folcloristici che sentono estremamente estranei, lontani da sé. Ma le cose cambiano se possono entrare in contatto con qualcuno che ha le loro stesse abitudini, modi di parlare, passioni. Allora, iniziano a capire».
Siamo tutti sulla stessa barca, ma non crede che la navigazione per le donne, rispetto agli uomini, sia ancora un po’ più faticosa?
«Posso risponderle dicendole qual è il mio punto di vista: io sono a favore dell’avanzamento dei diritti degli esseri umani in generale. Pur partendo dalla mia esperienza, tento sempre di allargare la visuale».
In Irlanda i matrimoni fra persone dello stesso sesso sono stati «promossi» da un referendum. Però la legge sull’aborto in quel Paese è una delle più restrittive d’Europa.
«In generale, vorrei vivere in un mondo dove le persone sono libere di scegliere. Vale anche per l’aborto. Ho due amiche che hanno sentito di non poter fare diversamente. Io non ero d’accordo, per me la nascita di un bambino è un miracolo, ero convinto che alla fine le cose sarebbero andate bene, e ho fatto tutto il possibile per convincerle a cambiare idea. Però, una volta che hanno fatto la loro scelta, l’ho rispettata e ho voluto loro bene come prima».
Torniamo in Italia: la Corte di Strasburgo ha condannato il nostro Paese per il mancato riconoscimento delle unioni gay. È la spinta decisiva?
«Da noi la mentalità patriarcal-religiosa ha un fan club bello numeroso e temo che ci vorranno parecchi ricambi generazionali prima che succeda qualcosa. Per fortuna, però, le persone vanno avanti lo stesso: mettono su casa, convivono, fanno figli, conosco donne single che sono andate in Francia per congelare gli ovuli e garantirsi la possibilità, un giorno, di avere un bambino. Allargare il concetto di famiglia, e non parlo solo dei gay, darebbe anche più libertà alle donne. Mi spiace per chi fa finta che certe cose non stiano accadendo. Ed è un peccato, perché sarebbe molto meno faticoso per tutti. Senza contare che dare un posto nel mondo a chi già esiste sarebbe un vantaggio in generale. Ne trarrebbe giovamento l’economia, per esempio. Secondo lei in America hanno approvato i matrimoni gay senza farsi due conti?».
Neppure un anno fa diceva di avere fiducia in Papa Francesco.
«Le parole, la forma, le apparenze contano e avere un rappresentante di Dio in terra che parla di amore verso il prossimo, comprensione, misericordia, carità, fa piacere. Vorrei che dalle parole si passasse ai fatti».