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 2015  agosto 20 Giovedì calendario

NELLA LEGIONE STRANIERA, TRA QUELLI CHE SONO RIUSCITI A SOPRAVVIVERE ALLE REGOLE PIU DURE DEL MONDO

Le nuove reclute stanno in fila di fronte al portone della caserma di Aubagne, sobborgo industriale a venti chilometri da Marsiglia. Portano uno zaino con qualche vestito, i documenti in tasca, poche banconote nel portafogli. Sono corrucciati e silenziosi, persino tra loro. «Ho sempre sognato di essere qui», sussurra il più giovane, un ragazzo serbo dagli occhi azzurri. Forse sono le uniche parole che sa di francese. La soglia che sta per varcare lo condurrà a far parte di uno dei corpi militari d’élite più ambiti al mondo: la Legione Straniera. Ammesso che tutto vada liscio, ovviamente.
L’iter di arruolamento è più o meno lo stesso di mezzo secolo fa. Le porte di Aubagne sono aperte sette giorni su sette, ventiquattro ore su venti- quattro. Chiunque può presentarsi purché abbia tra i diciotto e i quarant’anni, non sia francese e abbia bisogno di cambiare vita. Le selezioni, molto severe, durano circa due settimane, ma buona parte dei candidati viene scartata dalla commissione esaminatrice, il cui soprannome si tramanda di generazione in generazione: “La Gestapò”.
Chi è sposato viene registrato come celibe, mentre le reclute sono perlopiù dotate di nuovi documenti e nuova identità. Cioè la “identité déclarée”: chi la ottiene non può lasciare la Francia né acquistare un’auto oppure affittare casa.
Questa è “la méthode Légion”, lo stile di vita che da quasi due secoli regola 1’esistenza di questi uomini che partono da ogni angolo del globo. Si basa su due principi, sacrificio e obbedienza: non è adatto a chiunque. L’addestramento di base dura circa quattro mesi, durante i quali ogni minimo contatto con l’esterno è severamente bandito.
Si dorme poco, quasi sempre all’addiaccio, ed è normale che qualcuno getti la spugna. Recita comunque il codice d’onore del Corpo: «Ogni legionario è tuo fratello d’armi, qualunque sia la sua nazionalità, la sua razza, la sua religione. Gli devi dimostrare sempre la stretta solidarietà che deve unire i membri di una famiglia».
A Malmousque, sulla strada che dal centro di Marsiglia porta verso la costiera delle Calanques, sorge Le Centre des Permissionnaires de la Légion Etrangère, una piccola caserma affacciata sul mare. In mezzo al cortile, all’ombra del tricolore francese, è inciso in bella vista lo storico motto dei “Képi blanc” (il tradizionale copricapo cilindrico con la visiera rigida, usato dai legionari, ndr): «LEGIO PATRIA NOSTRA», la Legione è la nostra patria.
Da sempre è la patria anche di molti italiani. «Oggi saranno una dozzina», racconta il modenese Cristian Chitoiu, classe 1991, che sta per completare i cinque anni di contratto. «In tanti cercano di arruolarsi, spinti anche dalla crisi o dalla disoccupazione. Ma questo non è il nostro esercito, non si passano le giornate in un ufficio: qui la disciplina è rigida, non sono ammesse cazzate. Chi non lo capisce viene messo alla porta oppure finisce per disertare. Molti italiani, purtroppo, non riescono a evitare questa strada».
Gli ospiti di Malmousque sono in buona parte convalescenti, reduci da missioni all’estero o da addestramenti troppo pesanti. Qui vengono in licenza i legionari con identité déclarée, che altrimenti dovrebbero restare confinati al proprio reggimento.
Si ritrovano tutti in fila all’ora del rancio, che si consuma a mezzogiorno e alle sei di sera, come in caserma. Spalle larghe, bicipiti tatuati, capelli rasati a zero: molti mangiano in silenzio, seduti al proprio pezzo di tavolo. Ci sono gli slavi, forse il gruppo più numeroso; poi i nordafricani, gli asiatici e i latinoamericani.
Gli addetti alle cucine sono tre ragazzi in braghe corte e maglietta nera: vengono da Aubagne e devono ancora passare le selezioni. «Qui li chiamano “les bleus”», sorride Cristian. «Tra un test e l’altro vengono utilizzati per le corvée di pulizia o in mensa, oppure per altre mansioni. Se riusciranno a superare le prove, diventeranno “rouge” e verranno intruppati per l’addestramento».
E un percorso molto lungo, che si conclude con la mitica “Marcia del Képi blanc”: «Zaino affardellato, fucile d’assalto, decine di chilometri a passo militare. Solo allora potranno dirsi veri legionari».
Guardati a vista da un mastodontico caporale ispanico, i tre aspiranti volontari lavorano a testa bassa in assoluto silenzio, sotto lo sguardo gelido e accigliato dei futuri colleghi. La sera vengono accompagnati in una piccola struttura accanto al posto di guardia, dove sono sistemate le loro brande.
«Indossare il képi è un privilegio. Bisogna sudarselo ma credo sia giusto così», dice Miguel, 23 anni, che per arruolarsi ha dovuto espatriare illegalmente dal Venezuela e attraversare mezzo mondo. «Dopo i primi anni di servizio, un legionario può richiedere la cittadinanza francese: per molti ragazzi come me, provenienti da Paesi in via di sviluppo, significa una nuova vita con uno stipendio europeo in tasca e una divisa gloriosa sulle spalle. Credetemi: non è poco».
Certo, uno scotto da pagare c’è, non sempre indolore. Negli ultimi anni la Legione Straniera ha partecipato a diverse missioni di guerra, dal Mali all’Afghanistan passando per il Ciad, la Costa d’Avorio e il Libano. Nel 2014, almeno due legionari - un serbo e un ceco - sono rimasti uccisi in combattimento. L’anno precedente altri due volontari erano morti nelle vicinanze di M’Poko, in Repubblica Centrafricana.
«Siamo soldati, quindi il rischio di farsi male, purtroppo, fa parte del nostro destino», scuote la testa Danilo Pagliaro, brigadier-chef Veneziano, classe 1957, nella Legione da vent’anni, è l’indiscusso punto di riferimento per gli aspiranti Képi blanc italiani. A Malmousque organizza corsi di subacquea, che a volte vengono aperti anche ai civili.
Zazzera tagliata cortissima con la sfumatura alta, un leggero accento lagunare, gli occhi azzurri circondati da una fitta ragnatela di rughe, la sua storia sembra uscita da un romanzo d’appendice. Figlio di un finanziere, di famiglia benestante e nazionalista, Pagliaro decide di arruolarsi nei primi Anni 90, subito dopo la Guerra del Golfo: «Il mio Paese era coinvolto in un conflitto e sentivo l’obbligo di fare qualcosa», sorride. La Marina Militare però lo respinge e lui opta per la Legione: ha 36 anni, è sposato e ha due figli.
«Qualche tempo dopo è accaduta una cosa brutta», racconta volgendo lo sguardo al mare. «Durante l’addestramento, mia moglie mi ha lasciato per un altro, portandosi i bambini. Di lì a pochi mesi è morta mia madre: è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Improvvisamente mi sono ritrovato arruolato in Legione, senza più una famiglia, solo e privo di radici. Mi facevo assegnare alle operazioni più difficili: ci andavo volentieri, non avevo più nulla da perdere».
Nel 1996 è nella Repubblica Centrafricana e prende parte alla battaglia di Bangui. Poi va in Camerun, infine in Costa d’Avorio. La sua ancora di salvezza si chiama Simona: la incontra durante una licenza, alla vigilia di una lunga missione a Gibuti. E amore a prima vista.
Lui parte per l’Africa il 28 gennaio, a marzo lei lo raggiunge. Si sposano nel 2004: «Ti prego, non mi costringere mai a scegliere tra te e la Legione», le ha chiesto prima di portarla all’altare. Così è stato, cosi è ancora.
«La guerra l’ho vista molto da vicino», dice Danilo, che ora ha 58 anni ed è a un passo dalla pensione. «E una cosa terribile, sporca, non puoi fare altro che odiarla. Chi è stato in prima linea detesta parlarne, è come uscire da un confessionale. Eppure in molti non riescono a comprenderlo: tanti ragazzi arrivano qui convinti che maneggiare le armi sia come giocare a un videogame. Lo capisci da come parlano, da quello che scrivono su internet. Purtroppo molti italiani sono cosi, e spesso vengono scartati».
Le eccezioni sono abbastanza rare, ma ci sono. Stephan Gezzar è un italo-marocchino di 25 anni. S’è arruolato per spirito d’avventura, come si faceva mezzo secolo fa: «Avrei potuto | entrare nell’Esercito», racconta, «ma la verità è che cercavo I qualcosa di molto più forte. Non l’ho fatto per ragioni economiche, sarebbe stato sciocco. Sono qui da quasi un anno, l’ambiente mi piace e mi sto dando da fare: spero che mi mandino in missione, non vedo l’ora di partire».
All’ingresso della caserma di Aubagne, accanto al portone principale, c’è un manifesto con un motto in più lingue: «Cambia la tua vita. La Legione ti offre una nuova esistenza». Oltre il cancello, dal gabbiotto della garitta, un monumentale graduato osserva il passaggio con occhi severi. I nuovi volontari attendono in silenzio: il loro turno sta per arrivare.