Roberto Bertinetti, Il Messaggero 20/8/2015, 20 agosto 2015
LA FATICA DI ESSERE NABOKOV
«Ho avuto bisogno di vent’anni per restituire dignità alla letteratura russa, lo stesso periodo mi servirà per rifondare quella statunitense», affermò Vladimir Nabokov in una lettera del 1940 prima di imbarcarsi per gli Usa insieme alla moglie Vera e al figlio Dmitri. Questa frase, sottolinea Robert Rope in Nabokov in America, offre un perfetto esempio dell’egocentrismo del narratore nato a San Pietroburgo nel 1899, cui si accompagnavano un narcisismo esibito con orgoglio e una superbia intellettuale imbarazzante per molti interlocutori. Nel saggio biografico di Rope, appena uscito a New York e Londra per Bloomsbury, si mette a fuoco un periodo di fondamentale importanza per Nabokov che lo vide, tra il 1940 e il 1961 (quando scelse di trasferirsi in Svizzera) comporre le sue opere più celebri e soprattutto mettere da parte il russo per comporre in inglese.
Lo studioso ricostruisce il periodo americano di Nabokov offrendo dettagli inediti su un artista dalla personalità complessa che di sé diceva «penso come un genio, scrivo come un autore di primissimo piano» grazie anche a interviste ritrovate negli archivi e ricostruisce la genesi e le disavventure editoriali di Lolita, che uscì in Francia nell’ottobre del 1955 e solo in seguito altrove. Secondo una leggenda che Nabokov fece circolare il libro richiese appena cinquanta giorni per venir terminato. In realtà, spiega Rope, occupò per sei anni ogni momento libero del docente della Cornell University e soltanto nell’estate del 1953, parlando con un collega, fece cenno al romanzo «che ho appena finito su un uomo al quale piacciono le ragazzine». Pubblicarlo fu arduo perché all’epoca negli Usa mettere in circolazione un testo così poco convenzionale poteva significare il carcere.
Dopo un tentativo fallito con la Doubleday dove un redattore definì Lolita «non proponibile perché sembra La strada di Swann rivista da un Joyce pornografo», Vera Nabokov spedì il manoscritto in Francia dove fu letto da Maurice Girodias, responsabile per la Olympia Press di una collana di volumi osé in lingua inglese. L’unica condizione che pose per stamparlo era che l’autore non si nascondesse dietro uno pseudonimo e su questo Nabokov non fece alcuna obiezione. I critici non presero in considerazione Lolita sino a quando Graham Greene non lo definì «un capolavoro quasi introvabile». Con il risultato, sottolinea il biografo, che «in Inghilterra si scatenò il finimondo, negli Usa il panico morale».
Gran parte dei colleghi di Greene non ne condivideva il giudizio. Evelyn Waugh, ad esempio, sostenne che l’unico punto di forza del testo era l’oscenità. Per Edward M. Forster, invece, quelle pagine erano noiose e Rebecca West le ritenne «brutte oltre il sopportabile». Fu necessario attende il 1958 prima che la Putnam proponesse Lolita in America senza incontrare le temute conseguenze penali. Divenne subito un bestseller rendendo felice Nabokov («io lavoro esclusivamente per guadagnare», disse a un editor della Putnam) ma sconcertando i commentatori. Edmund Wilson, che pure gli era amico, sostenne di essere «disgustato», sul New York Times Orville Prescott parlò di «pornografia intellettuale».
Prima di rientrare in Europa Nabokov tradusse in inglese tutte le opere composte in russo e diede alle stampe Pnin che Rope giudica «un autoritratto all’insegna del grottesco». Anche questo personaggio è infatti un emigré che ottiene un contratto da un ateneo ma lo perde in fretta perché non comprende le regole del gioco e non impara a vendersi. Negli Stati Uniti, inoltre, lo scrittore ebbe moltissime opportunità di approfondire la sua leggendaria passione per le farfalle, entrando in contatto con scienziati e musei che ne apprezzavano il rigore con cui si dedicava ai lepidotteri.
Nei colloqui con i giornalisti riproposti da Rope non mancano i giudizi taglienti su molti intellettuali di primo piano. Nabokov demolisce con feroci battute il lavoro di T. S. Eliot o di Ezra Pound («individui disgustosi e di secondo rango»), i romanzi di Pasternak («propone cose squallide, piene di cliché»), l’impegno di Sartre o di Bertrand Russell («qualsiasi cosa dicano o facciano io dico o faccio il contrario, certo di non sbagliarmi»). Contemporaneamente si chiama fuori dal gruppo dei contemporanei proclamando: «La mia arte è troppo avanti perché qualcuno possa raggiungerla». Tra i bersagli che si diverte a colpire figurano Dostoevskij Balzac, D.H. Lawrence, Thomas Mann e Sartre. Il più vituperato è comunque Freud di cui non nasconde di pensare tutto il male possibile perché «il freudismo mi sembra uno dei raggiri più ignobili che la gente possa praticare su se stessa».
Roccioso nel difendere le sue idee, non si piegò neppure di fronte a offerte che altri avrebbero giudicato allettanti. Quando il Reader’s Digest gli chiese di rispondere con un articolo da compensare lautamente alla domanda «lo scrittore ha una responsabilità sociale?» replicò con un rifiuto stizzito. Come era del resto inevitabile aspettarsi da un uomo che, secondo Rope, sembra vissuto per errore nel ’900, un aristocratico russo con un altissimo concetto di sé e un sovrano disprezzo per l’universo mondo.