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 2015  agosto 20 Giovedì calendario

SE LA RIPRESA PERDE I PAESI EMERGENTI

Dopo quindici anni di storie, è emersa una nuova consapevolezza: i mercati emergenti sono nei guai, e grossi. Molti analisti avevano estrapolato la rapida crescita di Paesi come Brasile, Russia, Turchia e India e l’avevano proiettata in un futuro indefinito, definendoli i nuovi motori dell’economia mondiale.
Ora in quasi tutti quei Paesi la crescita è in calo e gli investitori stanno portando via i loro soldi, in parte spinti dalla previsione di un rialzo dei tassi di interesse della Fed americana, a settembre. Le divise di quei Paesi sono precipitate, gli scandali per corruzione e altre difficoltà politiche hanno travolto l’andamento economico di Brasile e Turchia.
Col senno di poi, è emerso che non c’era nessuna crescita costante nella maggior parte dei Paesi emergenti. A guardare bene sotto la superficie, si scoprivano alti tassi di crescita dovuti più che a una trasformazione produttiva, alla domanda interna, a sua volta alimentata da temporanei boom di materie prime e livelli insostenibili di prestito pubblico o più spesso, privato.
Sì, nei mercati emergenti ci sono tantissime aziende di livello mondiale e lo sviluppo della classe media è innegabile, ma solo una piccola parte della forza lavoro di queste economie è impiegata nelle imprese produttive, il resto viene assorbito dalle attività informali e non produttive.
Paragonando quest’esperienza con quella dei pochi Paesi che sono emersi con successo, “promossi” a status di Paese avanzato, viene fuori l’ingrediente mancante. La Corea del Sud e Taiwan sono cresciute grazie alla rapida industrializzazione: mentre i contadini di entrambi i Paesi sono diventati operai, le loro economie – e in seconda battuta, anche le loro politiche – sono state trasformate. Alla fine la Corea del Sud e Taiwan sono diventate ricche democrazie.
Invece, la maggior parte dei mercati emergenti si sta deindustrializzando prematuramente. I servizi non sono commerciabili allo stesso modo dei beni manifatturieri e per la maggior parte non dimostrano lo stesso dinamismo tecnologico. Di conseguenza, i servizi si sono rivelati una pessima alternativa all’industrializzazione orientata sulle esportazioni.
Ciononostante, i mercati emergenti non si meritano il trattamento desolante che stanno ricevendo in questi giorni. La vera lezione sul crollo del mito dei mercati emergenti è che si deve prestare maggiore attenzione ai fondamentali della crescita e riconoscere la diversità delle circostanze in un gruppo di economie che sono state accomunate senza motivo.
Per le economie in via di sviluppo, i tre fondamentali della crescita sono
l’acquisizione di competenze e istruzione da parte della forza lavoro;
il miglioramento delle istituzioni e della governance;
la trasformazione strutturale da attività a bassa produttività ad attività ad alta produttività (come nel caso dell’industrializzazione). Infatti, la rapida crescita stile Asia orientale ha imposto una dose massiccia di trasformazioni strutturali per diversi decenni, con grandi progressi in ambito educativo e istituzionale che hanno gettato le fondamenta a lungo termine per una convergenza con le economie avanzate.
Diversamente dalle economie dell’Asia orientale, oggi i mercati emergenti non possono affidarsi a eccedenze delle esportazioni manifatturiere come motori di trasformazione e crescita strutturale. Così sono costretti a puntare su fondamentali più a lungo termine come l’istruzione e le istituzioni; queste generano crescita – e di fatto sono indispensabili alla crescita – ma producono al massimo una crescita annua di 2-3%, non i tassi dell’Asia orientale di 7-8%.
Prendete la Cina e l’India. La Cina è cresciuta a forza di costruire industrie e di riempirle di contadini con una scarsa istruzione che hanno portato un aumento istantaneo della produttività. Il vantaggio comparato dell’India sta nei servizi con un’intensità di competenze relativamente alta – come l’Information technology – in grado di assorbire solo una piccola parte della forza lavoro indiana che è perlopiù non qualificata. Ci vorranno molti decenni perché il livello medio di specializzazione in India aumenti al punto di spingere l’intera produttività economica verso un livello molto più alto.
È per questo che la crescita potenziale indiana a medio termine è rimasta molto al di sotto di quella cinese negli ultimi decenni. Una grande spinta nella spesa infrastrutturale e nelle riforme di policy può fare una grande differenza, ma non può colmare il divario.
D’altra parte, essere la tartaruga anziché la lepre nella corsa verso la crescita può rappresentare un vantaggio. I Paesi che dipendono molto dal forte potenziamento delle competenze economiche e dal miglioramento della governance magari non cresceranno altrettanto rapidamente, ma possono essere più stabili, meno vulnerabili alle crisi e infine più inclini a convergere con i Paesi avanzati.
I progressi economici della Cina sono innegabili, ma la Cina resta un Paese autoritario dove il Partito comunista detiene il monopolio politico. Così, le sfide della trasformazione politica e istituzionale sono incommensurabilmente maggiori che in India. E l’incertezza di un investitore cinese a lungo termine è di conseguenza maggiore.
Oppure prendete il Brasile e confrontatelo con gli altri mercati emergenti. Tra questi Paesi, è stato probabilmente il Brasile a registrare i risultati migliori. Lo scandalo per corruzione che si è abbattuto sulla Petrobras, la compagnia petrolifera di Stato, ha provocato una crisi economica con una batosta per la divisa brasiliana e un arresto della crescita.
Eppure, la crisi politica del Brasile dimostra la maturità democratica del Paese e probabilmente è un segno di forza più che di debolezza. L’abilità degli inquirenti nelle indagini sulle irregolarità nei pagamenti tra gli strati più altolocati della società e del governo brasiliani senza subire interferenze politiche – o senza trasformarsi in una caccia alle streghe – potrebbe essere d’esempio per molti Paesi avanzati.
Il contrasto con la Turchia non potrebbe essere più netto. La corruzione molto più dilagante in Turchia che ha coinvolto il presidente Recep Tayyip Erdogan e la sua famiglia, non ha subito conseguenze. L’indagine della magistratura turca contro Erdogan nel 2013 era chiaramente manovrata politicamente (e provocata dagli avversari di Erdogan nel movimento capeggiato da Fethullah Gülen, il predicatore islamico che si è autoesiliato), cosa che ha fornito al governo il pretesto per stroncarla. L’economia turca non ha sofferto quanto quella brasiliana, ma la sua corruzione finirà per provocare più danni nel lungo periodo.
Finanziamenti esterni a buon mercato, un afflusso massiccio di capitali e un boom delle materie prime hanno contribuito a nascondere molte di queste lacune e alimentato quindici anni di crescita dei mercati emergenti. Con l’economia mondiale che farà soffiare venti contrari negli anni a venire, sarà più facile distinguere i Paesi che hanno veramente consolidato i loro fondamentali economici e politici da quelli che si sono adagiati su false strade e sulla debole forza di un sentimento mutevole degli investitori.
(Traduzione di Francesca Novajra)