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 2015  agosto 19 Mercoledì calendario

Il robopoliziotto è di pattuglia– Il poliziotto ferma il sospetto, punta la pistola, chiede di alzare le mani

Il robopoliziotto è di pattuglia– Il poliziotto ferma il sospetto, punta la pistola, chiede di alzare le mani. Il ragazzo si rifiuta. E, quando infila una mano nella borsa, l’agente lo fredda, pensando erroneamente che stia per prendere un’arma. Per fortuna l’unico elemento reale è... il poliziotto. La scena è una sorta di videogioco: un sistema interattivo dotato di schermo su cui appaiono vari scenari, con malviventi e sospetti interpretati da attori. L’agente valuta ciò che accade, parla coi personaggi virtuali e decide che cosa fare, se cercare di riportare la calma o sparare. I simulatori interattivi (come il sistema VirTra) sono la versione hi-tech dell’abituale addestramento della polizia: una tecnologia per “allenarsi” a reagire in modo appropriato in condizioni difficili. Sulle strade, poi, i tutori dell’ordine potranno contare sull’appoggio di robot come Knightscope (in alto). Si muove, legge le targhe delle auto, riconosce i volti e registra comportamenti sospetti, lanciando l’allarme. Per il momento è stato testato per la sicurezza in aziende, ma è pensato per la sorveglianza di luoghi anche affollati, come centri commerciali o campus scolastici. Il turno di pattuglia dei “robocop” sembra quindi iniziato: la polizia di Dubai ha perfino annunciato che, a partire dal 2017, introdurrà in alcuni luoghi pubblici robot capaci di interagire con i cittadini e collegarsi alla centrale di polizia. Insomma, anche se per i cyborg in grado di arrestare i criminali bisognerà attendere, il futuro della polizia è segnato dall’uso delle nuove tecnologie. Ma quali conseguenze comporteranno? Serviranno a rendere le nostre città più sicure? E quali saranno i rischi, invece? RAPINE FUTURE. Una delle tecnologie emergenti sembra davvero uscita dal film MinorityReport. Si tratta dei software predittivi: non anticipano un crimine specifico, ma indicano dove e quando potranno essere commessi dei reati e indirizzano così le forze dell’ordine. Nel campo, l’Italia è all’avanguardia. Un programma, KeyCrime, è operativo nella Questura di Milano dal 2007. «Studiando le rapine nelle farmacie», spiega l’inventore, l’assistente capo della Polizia Mario Venturi, «mi sono reso conto che gran parte dei dati raccolti andavano perduti e che c’era bisogno di uno strumento per compararli». Così è nato un enorme database che raccoglie ogni informazione sui reati (ieri solo rapine, oggi tutti) con un algoritmo che mette in correlazione elementi come data, luogo, ora, tipo di reato, obiettivo, dati e comportamento del malvivente, eventuali filmati di telecamere di sicurezza. «A questo punto il software compara il singolo reato con gli 8.000 precedenti, contenuti nell’archivio, e propone all’agente eventi potenzialmente collegati con quello analizzato. Così si evidenzia una serialità tra più reati, che permette di “prevedere” i successivi per quanto riguarda il tipo di obiettivo, una zona e un arco temporale, ma anche la pericolosità del criminale», spiega Venturi. «Per esempio, due mesi fa siamo riusciti a catturare alcuni rapinatori che agivano nelle farmacie armati di fucile a canne mozze, fatto piuttosto anomalo, aspettandoli nella zona e nell’arco temporale in cui il software ci diceva che avrebbero colpito». Oggi è l’uomo che, servendosi del computer, indirizza le ricerche. Ma nella nuova versione del programma (KeyCrime Cube, che Venturi spera di proporre come software nazionale al ministero dell’Interno), il processo sarà ancora più automatico, per esempio nel ricostruire la serialità tra crimini. «Anche se l’ultima parola sarà dell’uomo», dice Venturi. Non è un dettaglio, dato che programmi simili usati in altri Paesi hanno scatenato polemiche per il loro automatismo”. È accaduto a Chicago, dove un algoritmo ha creato una lista delle 400 persone potenzialmente più pericolose della città, includendo anche ragazzi con reati minori alle spalle. Inoltre, i software predittivi in genere individuano “zone calde” della città in cui è più alto il rischio che alcuni reati siano commessi: la polizia potrebbe seguire analisi che continuano a puntare verso i quartieri più poveri o pieni di minoranze. Senza contare che in futuro i software potrebbero attingere a dati personali, reperiti dai social media, per costruire profili criminali potenziali di ogni cittadino. «La raccolta di dati e i software predittivi predispongono un futuro con minore libertà», sostiene Jay Stanley dell’American Civil Liberties Union, l’organizzazione Usa che difende i diritti civili, «e lo stesso vale per le tecnologie sempre più usate, come le reti di videocamere». La privacy, infatti, è l’altra grande questione. E in gioco in tutti i casi in cui i cittadini potrebbero essere ripresi dalle videocamere dei robot o dalle “body-cam”, che negli Usa sono sempre più spesso agganciate alla divisa o agli occhiali dei poliziotti per registrare ciò che accade attorno a loro. Se da una parte queste ultime documentano le interazioni tra poliziotti e cittadini (sospetti o no), «bisogna stabilire regole per essere sicuri che non vengano usate come strumenti di sorveglianza», spiega Jake Laperruque, del Centro per la Democrazia e la Tecnologia di Washington. «Vuol dire essere certi che siano accese solo quando è richiesto dal servizio, che l’accesso al video sia controllato e che l’uso di software di riconoscimento facciale sia limitato». In Italia il Garante della privacy, nell’ambito della sperimentazione in corso a Torino, Milano, Roma e Napoli durante le manifestazioni pubbliche, ne ha chiesto l’utilizzo “solo in caso insorga un reale pericolo per la sicurezza”. CONTROLLATI? E negli Usa un dibattito si è scatenato anche per l’uso di droni da parte delle forze dell’ordine, per sorvegliare dall’alto le città: i cittadini di Seattle, per esempio, si sono ribellati, finché il sindaco ne ha bloccato l’adozione. «Dopo l’11 settembre 2001, negli Usa c’è stata un’escalation dell’uso della tecnologia in funzione di controllo, anche dalle polizie locali», puntualizza Stanley. Il panorama delle tecnologie per la sicurezza è vario. Si va da ShotSpotter, sistema di sensori (in uso in varie città Usa) che identificano la provenienza di uno sparo per inviare subito una pattuglia sul luogo, a Explorer, palla con dentro una videocamera che riprende in diverse direzioni e che gli agenti possono lanciare in un edificio per avere una visuale completa; da Leedir, piattaforma e app con cui i cittadini possono inviare foto e video, a NeoFace Watch di Nec, con cui si possono identificare le persone riprese dalle telecamere di videosorveglianza. Di fronte a strumenti più intelligenti e pervasivi, che futuro ci attende? «Più tecnologie saranno nelle mani delle forze dell’ordine, più sorgeranno domande su come il loro utilizzo dovrà essere limitato», spiega Laperruque. Quindi, per porre limiti a eventuali abusi, «c’è bisogno di nuove leggi», conclude Stanley. Per sentirsi sicuri, non “spiati”. ©