Massimo Picozz, Focus 9/2015, 19 agosto 2015
SCIENZIATI FORENZI CHE DANNO LA CACCIA A KILLER IMPRENDIBILI
Grida sotto casa; un colpo d’arma da fuoco nella notte; la sorpresa e poi l’orrore di un uomo che va a spasso con il cane al mattino e finisce per inciampare in un cadavere sul ciglio di un prato. L’allarme raggiunge la pattuglia più vicina e si mette in moto la macchina delle indagini, con gli uomini delle forze dell’ordine e il magistrato di turno, cui spetta il compito di coordinare l’intervento.
Tutto converge sulla scena del crimine, la palestra più importante per quanti devono identificare, raccogliere, analizzare e interpretare i segni lasciati dalla vittima e dall’aggressore. Ma l’investigatore e il pubblico ministero possono contare su un alleato prezioso, qualcuno che non lo potrà mai sostituire ma piuttosto affiancare nel compito di assicurare un criminale alla giustizia. Questo alleato si chiama scienziato forense. Due mondi, quello della scienza e quello della legge, che spesso si confrontano a fatica; sono infatti molti gli errori giudiziari fondati sulla presentazione di prove scientifiche solo all’apparenza indiscutibili.
TRAPPOLE. Il fatto è che senza il supporto di regole etiche condivise, gli scienziati forensi possono trasformarsi in hired gun, armi prezzolate al servizio delle parti, capaci di trascurare una prova rilevante, se sfavorevole al proprio cliente. Ma anche se onesto e corretto, un esperto può sempre commettere gravi errori, per ignoranza o per l’applicazione errata delle metodologie.
Se la cautela è compagna preziosa, non può essere negato il valore dell’alleanza tra scienza e legge. Perché un legame tra il criminale e la sua vittima esiste sempre, e proprio da questa constatazione inizia il lavoro del moderno investigatore, professionista che si muove applicando sempre più i metodi scientifici nell’analisi, nel confronto, e infine nella valutazione. Nel loro lavoro gli investigatori e gli scienziati forensi cercano tracce, prove, e tutti concordano sul primo scopo dei loro accertamenti: l’identificazione, di persone e di oggetti. Tutto quanto accade su una scena del crimine si può riassumere in una formula, un principio ben impresso nella mente di chi compie il primo intervento: “Proteggi e preserva”, una regola fondata sul concetto di interscambio, illustrato nel 1910 da Edmond Locard, responsabile del laboratorio della polizia scientifica di Lione.
POTENZIALITÀ E LIMITI. Tra le discipline forensi coinvolte in un’investigazione, alcune sono più sfruttate e determinanti, e perciò oggetto di contestazione e critica: le impronte digitali, tra le prime a essere studiate ma ancora oggi fondamentali; l’esame del Dna, rivoluzionario per l’impatto ma non infallibile; e infine la psicologia forense, il cui fascino deve fare i conti con una limitata oggettività. Se schizzi, imbrattamenti o grandi chiazze non creano grossi problemi di riconoscimento, talvolta le tracce di sangue non sono così evidenti, e bisogna saperle scovare. Il metodo non è complicato, basta affidarlo alle mani di seri professionisti, e prevede un primo test di screening seguito da una prova di conferma.
Tra i test preliminari troviamo quello ormai celebre del luminol. Il principio su cui si basa è l’attività di un catalizzatore contenuto nell’emoglobina, che in presenza di un agente ossidante fa sì che il luminol produca una fugace luminescenza blu elettrica, visibile al buio. Basta quindi nebulizzare la miscela con il luminol nell’area in cui si sospetta ci siano delle tracce di sangue non fresco. E naturalmente armarsi di macchina fotografica, perché la reazione è molto fugace e dopo pochi secondi scompare.
Una volta riconosciuta la presenza di sangue sulla scena di un crimine, ecco la vera rivoluzione nel campo delle scienze forensi: l’analisi del Dna. Dalla scoperta della molecola da parte di Watson e Crick, passano circa trent’anni, prima che Alee Jeffreys, professore di genetica all’Università di Leicester, intuisca nel 1985 le potenzialità del Dna nell’identificazione. Nel 1986 il test fa il suo ingresso in un’aula di tribunale per scagionare il principale sospettato di due casi di stupro e omicidio e incastrare il vero colpevole. Da allora la genetica forense è prepotentemente entrata nelle aule dei tribunali e grazie a tecniche sempre più sensibili che si fondano sull’amplificazione del Dna mediante Per (Polymerase chain reaction, in italiano Reazione a catena della polimerasi), oggi è possibile risalire a un individuo anche a partire da pochissime cellule, come quelle lasciate da un po’ di sudore o dal sangue lavato. Ma non bisogna dimenticare che anche gli strumenti scientifici più raffinati valgono come i detective che li usano. E il caso straordinario del “Fantasma di Heilbronn” lo dimostra.
GERMANIA, OTTOBRE 2001. Una madre si presenta in ospedale: suo figlio, nel parco, si è punto con una siringa. I medici mandano tutto in laboratorio, cercando il virus dell’Hiv e insieme il Dna del tossicomane. Sorpresa: nei computer della polizia quel profilo genetico è già stato registrato sulla scena di due brutali omicidi mai risolti, il primo avvenuto otto anni prima in Renania, il secondo il 23 maggio 1993, a Friburgo, in Svizzera. Lo stesso Dna, sesso femminile: evidentemente una donna serial killer. Ma il 24 ottobre successivo le sue tracce biologiche compaiono su un tovagliolo di carta accanto al rimorchio di un tir, forzato e ripulito, un furto che non c’entra nulla con gli omicidi. La stessa impronta genetica viene ritrovata su una pistola giocattolo, usata in una rapina ad Arbois, nella Francia Occidentale. Poi, il pomeriggio del 6 maggio 2005, a Worms, in Renania (Germania), due fratelli rom si azzuffano, e di nuovo il laboratorio scopre un collegamento con la donna senza volto. Comincia a farsi strada un’ipotesi: la criminale dev’essere legata a qualche gruppo di nomadi specializzati in furti, capace anche di ammazzare.
Il 25 aprile del 2007, a Heilbronn, nel Sud della Germania, Michèle Kiesewetter, giovane agente dell’antidroga sotto copertura, viene uccisa nell’auto, da due individui. Il suo compagno è gravemente ferito. Chi li ha aggrediti ha lasciato una traccia di Dna sul sedile posteriore. E da questo momento che la donna senza volto diventa il “fantasma di Heilbronn”.
Il governo tedesco mette 300.000 euro di taglia sul fantasma, destinati a chiunque sia in grado di fornire informazioni utili. Intanto dai genetisti forensi arriva un’altra informazione utile: il Dna appartiene a un soggetto che proviene da un Paese dell’Europa orientale.
Tutto quadra, perché alla periferia di Heilbronn è accampato un gruppo di rom e dalla cittadina, proprio poche ore dopo il delitto, un pullman di linea è partito verso Bucarest. Il 30 gennaio 2008, nel fiume che scorre alla periferia di Heppenheim, non lontano da Manheim, affiorano i cadaveri di tre uomini assassinati; si tratta di tre georgiani, gente che trafficava in auto. Tra i sospettati, un somalo e un iracheno, e la svolta delle indagini arriva quando, sulla macchina dell’asiatico, gli investigatori trovano il sangue di una delle vittime.
C’è però una cosa che nessuno riesce a spiegare, in quella storia che sembra un regolamento di conti tra bande rivali: che cosa ci faceva, seduta sul sedile posteriore, l’assassina di Heilbronn? Ormai per gli investigatori è certo che la donna, dopo aver eliminato Michèle Kiesewetter, ha fatto il salto di qualità: è diventata un killer su commissione.
COSTOSO ERRORE. Un fantasma che continua a colpire e a far impazzire gli investigatori. La notte del 22 marzo 2008 svaligia cinque appartamenti. A maggio aggredisce una donna e le ruba la borsetta. Poi uccide di nuovo: un’infermiera, per rubarle 300 euro. Ed è sempre il Dna a legarla all’omicidio.
Quindici anni di terrore, migliaia di ore di lavoro e più di dieci milioni di euro spesi, senza un risultato. La svolta arriva soltanto nella primavera del 2009.
A chiudere la storia è un immigrato clandestino, ammazzato in Francia da qualcuno che poi gli ha dato fuoco. Impossibile stabilirne l’identità, se non con un profilo genetico; ma il laboratorio restituisce una risposta davvero bizzarra: il campione appartiene a una donna, e per quanto carbonizzato, non c’è dubbio che la vittima sia un maschio... Il problema vero è, però, un altro: il profilo genetico è identico a quello del fantasma di Heilbronn.
Alla fine di marzo 2009, la situazione è chiara. Il fantasma non è mai esistito! Il profilo genetico di un’imprendibile assassina, una donna dell’Europa Orientale, non è mai stato raccolto sulla scena di crimini efferati e banali rapine. Quel Dna era già presente sui tamponcini in cotone usati per le tracce. In gergo tecnico si chiama “contaminazione”. I “cottonfioc” utilizzati da molti dipartimenti di polizia provenivano tutti dalla medesima azienda, dov’erano impiegate parecchie operaie dei Paesi dell’Est, e il Dna apparteneva a una di loro. ©
Massimo Picozzi