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 2015  agosto 14 Venerdì calendario

IL QUADRO PIU CARO DEL MONDO

C’è un’orgetta di smart phone in azione davanti al quadro più costoso del mondo. Naturalmente non si scattano foto al dipinto, ma a se stessi e/o amici accanto al dipinto. Il regolamento lo consente. «Basta non usare flash e non avvicinarsi oltre la linea» spiega la sorvegliante indicando una striscia appiccicata a terra. Gli altri quadri non se li fila quasi nessuno. Eppure sono bellissimi Van Gogh, Cézanne, Picasso. Ma niente: tutti pazzi per Gauguin e il suo Nafea faa ipoipo - in maori Quando ti sposi? – uno di quei titoli meravigliosamente enigmatici di cui lui custodiva il segreto. Vengono in tanti, eh? «Altroché» sorride la custode. «Domandano: Dov’è il quadro più caro del mondo? Ma spesso non sanno nemmeno chi l’ha dipinto». Resta ancora un mese di tempo per vedere la tela in Europa, al Reina Sofia di Madrid. Poi Nafea volerà alla Phillips Collection di Washington e da li, il 10 gennaio, partirà definitivamente per il Qatar dove è stato comprato per 300 milioni di dollari – circa 270 milioni di euro.
Misure: 101 per 77 centimetri, Quando ti sposi? mostra due polinesiane sedute in un paesaggio di terre verdi, dorate, azzurre, e montagne blu sotto un cielo giallo. La signorina con canottiera e pareo che vediamo in primo piano è decisamente più carina di quella che le sta alle spalle, anche se la modella utilizzata da Gauguin sarebbe stata la stessa. Con tutta probabilità l’ineffabile Tehamana o Teha’ amana, amante tredicenne del pittore che forse la lasciò incinta. Realizzato non en plein air, ma a partire da bozzetti nel 1892, durante il primo soggiorno a Tahiti, il quadro è passato di mano Io scorso febbraio, quando il fondo Staechelin Family Trust ha deciso di venderlo a un consorzio di musei del Qatar. Niente case d’asta: è stata una transazione privata. Come sempre in casi del genere, trattative e acquisto si sono svolti in un clima di segretezza da scambio di spie. «Non sono autorizzato a invelare il nome del compratore né il prezzo di vendita» ripeteva ancora lo scorso giugno Rudolf Staechelin
presentando l’opera a Madrid, assieme ad altri pezzi forti della collezione di famiglia.
Ex dipendente di Sotheby’s, 62 anni, Herr Staechelin è il nipote di un signore svizzero molto ricco che si chiamava Rudolf pure lui e nei primi decenni del Novecento cominciò ad appenderei in casa dipinti di Van Ciogh, Renoir, Pisarro. Il Gauguin lo acquistò nel 1921 per 18 mila franchi svizzeri di allora. Gli Staechelin erano una progenie di severi costruttori edili. In seguito, si buttarono anche nell’aeronautica. Ma nel ‘67 un volo si schiantò: a bordo, un centinaio di passeggeri tra cui il padre e il fratello di Rudolf jr. Per far fronte ai risarcimenti, gli Staechelin dovettero separerei da un paio di Picasso. Stavolta è andata diversamente: Rudolf ha detto che (Quando ti sposi? non è stato venduto per ragioni di emergenza finanziaria, ma per «migliorare la redistribuzione delle risorse famiglia». Traduci: fare cassa.
Esposta a Parigi nel 1893, prezzo 1.500 franchi, l’opera passò inosservata
«In Italia, la vendita di un Gauguin o di un’opera di pari importanza non sarebbe filata cosi liscia. Da noi ci vuole l’autorizzazione dello Stato. In Svizzera, come in Inghilterra hanno leggi più flessibili» ricorda Guido Guerzoni che insegna economia dei beni culturali all’università Bocconi. Se si è raggiunta quel popo’ di cifra dipende ovviamente dal fatto «che quadri del genere si trovano ormai quasi tutti nei musei e non se ne venderanno più di tre o quattro nell’arco di un secolo». Ma nelle transazioni private si può rincarare piacimento o anche li incide qualche parametro valutativo? «Beh, si tiene conto delle banche dati che raccolgono le aggiudicazioni d’asta degli ultimi vent’anni». Prima del Gauguin, il botto record lo aveva fatto una versione dei Giocatori di carte di Cézanne che nel 2012 fu venduta per 250 milioni di dollari dall’armatore greco George Embricos. Indovinate a chi? Sempre al Qatar. «Gli sceichi di Doha sono adesso i maggiori spender del mondo, in duello con Abu Dhabi, Oman e Bahrein dice Guerzoni.
A che tipo di strategia risponde maxi-shopping delle opere d’arte? «Puntano su musei e quadri mainstream - gli Impressionisti funzionano sempre bene – per attirare turisti». Di chi genere? «Essenzialmente occidentali. Gente che in 2 o 3 giorni di permanenza non vuole più limitarsi ad andare per negozi. I grandi acquisti d’arte non sono un capriccio, ma i frutto di una serissima logica di investimento. Non siamo più ai tempi di Kashoggi e de rubinetti d’oro nel cesso». Che spendano in capolavori e turismo perché il petrolio sta finendo è una leggenda o c’è del vero? «Non lo so, ma posso dirle che se pure tra quarant’anni i giacimenti dovessero inaridirsi, si troveranno a gestire tanti di quei miliardi da poter vivere di rendita ancora molto a lungo. Dopotutto, è mica da ieri che hanno cominciato a investire, iniziarono negli anni 70».
Oggi può far tenerezza pensare che Quando ti sposi? andò invenduto all’esposizione parigina allestiti» nel 1893 dal gran mercante degli Impressionisti Paul Durand-Ruel. Due anni dopo il quadro sarebbe finito all’asta per 500 franchi, un terzo del valore iniziale. A quella mostra Gauguin, appena rientrato dai Mari del Sud, si era presentato spavaldo con 41 tele tahitiane, tre del periodo bretone, più alcune sculture in legno. Forte della svolta polinesiana, Paul contava di stupire tutti, ma il bilancio fu giamo: vennero venduti solo 11 quadri, troppo pochi per risollevarlo dall’indigenza in cui si trascinava da anni. Del resto –
come riferisce la viaggiatrice Mirella Tenderini nella bella biografia Gauguin e Tahiti –la critica era divisa. «Pollate i vostri bambini a divertirsi all’esposizione di Gauguin» scrisse aciduccio Octave Mirbeau su L’Echo de Paris. «Immagini colorate con femmine di quadrumani stese su tappeti da biliardo e tutto commentato da scritte incomprensibili». Unica consolazione: le due tele comprate da Degas, tra i pochi artisti che Gauguin abbia sempre ammirato senza riserve. «Per lui era il genio della sintesi» dice Maria Grazia Messina. È docente di arte contemporanea all’università di Firenze e al pittore ha dedicato vari studi. Analizzando soprattutto il discusso concetto di esotismo.
Solo i babbei e i sentimentali – che non sono esattamente la stessa cosa – credono ancora che la grande fuga di Eugène Henri Paul Gauguin nei Mari del Sud sia nata come impresa romantica. Certo, influenzato dalla temperie simbolista, il pittore inseguiva rabbiosamente un’idea d’arte in polemica col razionalismo positivista e la modernità delle macchine. Ma all’inizio, rammenta Messina, i moventi del viaggio furono dichiaratamente pragmatici, se non di opportunismo commerciale: «Già nel 1888, Gauguin avvertiva in una lettera che il mercato aveva bisogno di nuovi soggetti». Bisognava scuoterlo con suggestioni inconsuete. «La voga della pittura orientalistica lanciata a metà del secolo andava ripresa. Ci vogliono temi nuovi per un pubblico stupido nei suoi acquisti, scrisse in un’altra lettera». Con spregiudicata strategia mercantile, Paul era pronto a partirsene in Madagascar o nel Tonkino, ma poi scelse la Polinesia ritenendo – a torto – che laggiù avrebbe trovato un maggior grado verginità culturale, di illibatezza alle contaminazioni dell’Occidente colonialista, corrotto e corruttore.
Inviato dal Ministero francese dell’Istruzione e delle Belle arti in missione non retribuita a studiare dal punto di vista estetico costumi e paesaggi di quelle parti, Paul sbarca per la prima volta a Tahiti nel 1891. E subito tutti lo guardano come un alieno. C’è da capirli. In fatto di vagabondaggi, Gauguin non è un pivello, sin da ragazzino ha molto viaggiato, ma – con la mente imbottita di letture esaltanti, in particolare Pierre Loti – si presenta agli antipodi agghindato come una specie di Clint Eastwood in versione freak: cappellaccio da cow boy, lunghi capelli raccolti in una coda, carabina in spalla. Quel fucile dà già la misura del grosso equivoco nel quale è andato a ficcarsi. Perché lui sogna di vivere cacciando, ma non sa che sulle isole non c’è selvaggina, solo roditori e uccelli indigesti. Non per niente i nativi sono dediti alla pesca, Monsieur Gauguin.
In complesso, quel primo soggiorno sarà un disastro. A Tahiti, Paul trova una civiltà autoctona boccheggiante. Riti religiosi e usanze arcaiche sono stati praticamente cancellati dalla colonizzazione schiacciasassi. Decimata dai morbi d’importazione, la popolazione indigena vivacchia stordita, anche perché mezza alcolizzata Ormai ammalato e senza potere, il re maori Pomare V è una figura tragicamente crepuscolare. Muore proprio il giorno in cui Gauguin si prepara ad incontrarlo. Quanto alla capitale Papeete, è uno slum, un postaccio di baracche coi tetti di lamiera. Tutti i traffici sono in mano ai cinesi. Solo l’incantesimo del paesaggio e la disinibizione sessuale delle abitanti compensano le delusioni di Gauguin. Che pur mantenendo ancora rapporti corretti con l’amministrazione francese cerca a tutti i costi di immergersi nei costumi aborigeni. Ma è duretta. Comunicare in maori non viene facile.
Paul s’è trovato una casa isolata e ne ha tappezzato le pareti di riproduzioni portate dall’Europa: affreschi egizi, fregi del Partenone, Giotto, la venerata Olympia di Manet... Lavora molto, ma fatica a trovare una nuova strada: «Dipinge paesaggi o scene di genere come quella di Quando ti sposi? E, non avendo trovato testimonianze visive di un’arte arcaica ormai pressoché scomparsi», compie un’operazione eclettica: scolpisce idoli nel legno, ricrea figure mitiche dell’Olimpo maori che però sono di sua totale invenzione» spiega Messina. Con i nativi va a pesca di tonni, e con l’amante-modella Tehamana vive il tanto anelato idillio primitivistico. Gira in pareo, ma in quei languori si annoia da morire. La Francia gli manca. Tipo quelli che pure in vacanza restano tutto il tempo abbrancati a internet, Gauguin passa le giornate connesso: scrivendo lettere agli amici, alla moglie con cui ha rotto di» un pezzo, ai galleristi per battere cassa. È spiantato e, come in tutte le isole, anche negli arcipelaghi felici la vita è cara. Fisicamente acciaccato, Paul non ce la fa. Sperando di piazzare qualche quadro, nel giugno del ‘93 rientra in Europa.
A Parigi, come s’è visto, le vendite vanno male. Però Gauguin ha i suoi devoti e si impone come personaggio. Se la tira parecchio. Sfoggia un colbacco di astrakan, un mantello dagli alamari lucenti, la mano guantata sul pomo di un bastone che s’è intagliato da sé. Passeggia con una scimmiotta al guinzaglio e una nuova modella-maîtresse: Anna la giavanese, una ragazzina meticcia e racchia forte, che in realtà è di origini malesi. L’eredità di uno zio lo fa rifiatare economicamente. E l’atelier «infiammato di giallo cromo» che s’è trovato a Montparnasse diventa un epicentro intellettual-bohémien. Qualcosa di simile al falansterio di artisti vagheggiato tempo prima con Van Gogh durante il turbolento sodalizio nel Midi. Vincent è morto da tre anni. Ma Gaugin non ricorda l’amico con gratitudine. Artisticamente, si è sempre considerato superiore. Non è andato memmeno al suo funerale.»
Comunque per Paul anche quell’interludio europeo sarà un fiasco. Quando nel ’95 torna a imbarcarsi per l’Oceania è reduce di una rissa in Bretagna che l’ha lasciato malconcio.
Azzuffandosi con una torma di mocciosi e marinai che lo sfottevano, lui ha picchiato duro ma è stato sopraffatto. Anche a colpi di zoccolo bretone. Non bastasse, la Giavanese l’ha piantato rubandogli tutto salvo i quadri, e la scimmia Taoa è morta, intossicata. Arrivando di nuovo a Tahiti, Paul dimostra più dei suoi 47 anni. Trascina una caviglia dissestata, ci vede sempre meno e un eczema gli tempesta le gambe di piaghe. I nativi lo evitano, temendo sia lebbra. Invece sono gli effetti di una sifilide divorante. Solo qualche amorevole fanciulla lo assiste. In tutto. Quella chiamata Pahura partorirà una bambina che però muore quasi subito. Il lutto sarebbe all’origine del leggendario Nevermore che raffigura una tahitiana affranta e nuda su un letto, con due comari che bisbigliano alle sue spalle e, appollaiato su un davanzale, un corvo azzurroverde – richiamo al Kaven della poesia di Poe che Paul conosceva nella traduzione firmata da Baudelaire. Dello stesso periodo è anche la monumentale allegoria esistenziale intitolata Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo? Tra ricoveri in ospedale e un tentativo di suicidio tramite veleno, Gauguin dà prova di una tempra invidiabile. S’inventa persino rivistine satiriche nelle quali sfruculia i funzionari coloniali.
Nel 1901 trova la forzi» di trasferirai nelle più adamitiche Isole Marchesi, dove gli abitanti inneggiano a lui chiamandolo Koké. A Hiva Oa si costruisce la famosa abitazione atelier che battezza Casa del piacere ed è un’opera d’ai-te. Oltre che con l’amministrazione francese entra in conflitto con i missionari cristiani. E contro le estorsioni fiscali si schiera dalla parte dei nativi. Ma per addormentare i dolori fisici abusa di morfina. E l’8 maggio del 1903 lo trovano morto sul suo letto.
La fortuna postuma di Gauguin sarebbe stata singolare: Fauves ed Espressionisti l’adorarono, e nei 70 del Novecento la contro cultura ne fece una sorta di proto-fricchettone. Però neanche lui è sfuggito alla morsi revisionistica di un politically correct che in anni più recenti lo ha tacciato d’ogni nequizia colonialismo, maschilismo, turismo sessuali a propensione pedofila. Strana sensazione rimuginare su tutte queste cose di fronte a misterioso Nafea faa ipoipo, mentre un simpatico signore in bermuda e sandali a strappo ti prega cortesemente di scansarti perché deve scattarsi lo stramaledetto selfie.
Marco Cicala