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 2015  agosto 14 Venerdì calendario

MISTERO DEL SOGNO

Noi crediamo di comporre racconti. La regola è invece che i racconti compongano noi: che diano forma alla nostra personalità, alla nostra vita. Il racconto della vita, infatti, è più importante della vita. La vita è contingente, il racconto è assoluto. La vita è mortale, la narrazione è eterna.
Su questo erano d’accordo il maggior autore dell’antichità, Omero, e un suo corrispondente nella modernità, Borges. Per Omero, gli dei vollero la distruzione di Troia perché fosse raccontata: dunque Illiade, storia di quella distruzione, era più importante della stessa Troia, la città reale. Quanto a Borges, ha inventato il racconto totale moderno. Che non è così diverso da quello antico: come quello, è senza tempo. I contenuti dagli scritti di Borges spesso non sono legati a un’epoca. Ma anche il contenitore – il suo tipo di narrazione – può essere a-temporale. Questo gli è costato l’accusa di essere disimpegnato, indifferente alle sofferenze del suo periodo storico e della sua terra, l’Argentina
della dittatura militare. Anche senza un diretto impegno politico, Borges condusse però una vita impegnata: seguì sempre con coerenza la sua strada, dando la precedenza assoluta alla ricerca letteraria. Persino molti avversari riconoscono che questa scelta non legata ai tempi gli costò il Nobel, che avrebbe meritato più di chiunque in America Latina.
Anche quando il racconto borgesiano descrive personaggi storici, non è detto che voglia parlare specificamente di quella epoca. La sua sostanza pre-esiste alla distinzione fra fasi storiche: non è un loro prodotto, è pensato come un loro modello, un archetipo. Significativamente, una delle prime grandi opere di Borges si intitola: Storia dell’eternità (1936). Andare in biblioteca non serviva a Borges per assegnarsi un tempo e un luogo, ma proprio il contrario: per uscire da quei limiti, per essere libero perdendosi spazialmente e temporalmente. In una delle ultime interviste, disse che non temeva affatto la morte: sapeva fin troppo bene cosa è il distacco da tutto. Questa condizione non era solo un suo sentimento soggettivo, ma qualcosa che ci trasmette con i suoi scritti, dove i luoghi e le epoche possono essere poco identificabili o addirittura assenti.
Non ci stupisce dunque di trovarci fra le mani una ricca raccolta di sogni, che è sua in un doppio senso: Borges l’ha estratta da testi classici, religiosi e laici, inframmezzati da qualche sogno personale. Queste narrazioni che facciamo a noi stessi nel sonno, sono infatti i prototipi del racconto in cui tempi e luoghi si rimescolano seguendo leggi misteriose. Nel sogno il tempo non ha una struttura lineare, come quello che viviamo da svegli. Si l’aggruppa piuttosto intorno a un centro emozionale, gioioso o doloroso, da cui diversi episodi si dipartono come raggi. Ai risveglio, spesso non ricordiamo con sicurezza quale fosse il primo, ma solo che partivano tutti da quel nucleo di significato. Non sapremmo ricordare in che luogo esattamente si svolgeva, ma solo che aveva qualcosa di una casa che conosciamo: magari quella in cui siamo nati, ma forse anche qualcosa della caserma in cui abbiamo fatto il servizio militare.
Borges era uno scrittore assoluto anche in un altro senso: eccelleva nei diversi generi letterali. Eppure non scrisse romanzi, il genere a cui oggi associamo gli autori significativi. Il romanzo richiede, almeno nella fantasia, un lettore, un editore, una realtà umana posta a sfondo. Ben prima che la narrativa latinoamericana inventasse il modello letterario del realismo magico, Borges trasformò in pagina scritta la magia reale, che abita tutti i secoli e tutti i continenti: il romanzo è moderno, la narrazione borgesiana è esterna al tempo, un po’ come lo erano il mito e l’epica.
Omero e Borges erano dunque intimamente uniti da un credo che non corrisponde a una fede religiosa, ma che rende le religioni possibili: credevano che la visione, lo sguardo interiore, fosse più importante della vista, la capacità di vedere all’esterno. La simbologia della letteratura universale concorda con loro a tal punto da presentarli come due scrittori che non potevano scrivere: erano ciechi, ma avevano una capacità visionaria assoluta. Oggi la mancanza della vista è soprattutto una minorazione. Nell’antichità, invece, era spesso una dote degli indovini: che sanno distinguere le cose distanti non tanto nello spazio, quanto nel tempo.
Ancor oggi chiamiamo racconto un insieme di immagini ed eventi dotato di un impianto narrativo autonomo. Questo lo differenzia da altri generi letterari.
Un romanzo o un saggio hanno una struttura perché gliela dà l’autore. Il vero racconto nasce invece già dotato di una struttura, interna e preesistente: non conosciamo chi gliela ha data.
Questo è vero a tal punto da essersi depositato nell’inconscio collettivo del linguaggio. Nelle principali lingue europee, narrazione è in pratica equivalente a racconto, mentre romanzo e narrativa (come genere letterario) non lo sono affatto. In inglese, tale (racconto) viene da to tell (narrare), mentre fiction (narrativa: ma etimologicamente finzione, cioè invenzione) è tutt’altra cosa. A sua volta, in tedesco, Erzählungviene da erzälen, narrare; mentre il romanzo è Roman e la narrativa è Belletrististik (l’intenzione, lo sforzo di produrre delle «belle lettere»).
L’intera storia della letteratura (includendo i tempi in cui la scrittura ancora non esisteva) è segnata da questo dualismo. Da una parte opere di scrittori che intenzionalmente inventano una storia: l’autore che la propone è ben definito, e questo si accorda al protagonismo moderno. Nel 1925 proprio Borges voleva pubblicale una rivista letteraria composta solo di testi non firmati: ma già allora, dichiarò, il bisogno di apparire era così forte che non si trovarono scrittori disponibili. Dall’altra parte stanno invece i testi che una entità misteriosa – forse divina – consegna allo scrittore già strutturati. In quest’ultimo caso, egli si sente obbligato a praticare la modestia, a presentarsi solo come una voce che pronuncia parole non sue. Omero dichiara che non parlerà lui ma la Musa. Borges ricorre a uno schema più moderno, quasi psicoanalitico: il vero racconto non è creato dall’Io, ma dall’inconscio. La sua nascita corrisponde quindi a quella di un sogno. Probabilmente, la spersonalizzazione dell’autore deriva anche da un suo scaramantico bisogno di liberarsi almeno di una parte della responsabilità che i lettori gli assegnano. Così, la finzione del manoscritto scoperto per caso è stata praticata in ogni epoca, da Cervantes a Manzoni, a Eco: vi propongo questo lavoro non mio, guardate che scoperta interessante.
La possibilità che una narrazione non sia stata costruita, ma sia giunta miracolosamente già completa alla mente di chi poi la diffonde nel mondo ha un fascino irresistibile. Nell’animo umano esiste una disposizione ad accogliere simili storie e ad ascoltarle rapiti, ancora più che se le avessero create autori già celebri.
Da dove origina questa predisposizione universale, questa conoscenza che nessuno ci ha insegnato? Alla nascita, il bambino non possiede una memoria personale. Non «conosce» storie, ma desidera già nutrirsi di racconti: anche se nessuno gli ha insegnato cosa sono né perché, proprio come il cibo, servono a crescere. La coscienza si sviluppa lentamente dopo la nascita. L’inconscio, invece, esiste da prima. Le tecniche moderne permettono di verificare che il feto sogna. Detto in altro modo, già durante la gravidanza la psiche pratica quella auto-narrazione che chiamiamo sogno.
A questo punto abbiamo pochi dubbi. L’idea che esistano racconti che giungono alla mente già strutturati, già narrati, è convincente perché corrisponde alla prima esperienza psichica di ogni essere umano: al sogno. A quel tipo di narrazione che, secondo Borges, può costituire «...il più antico, e non meno complesso, dei generi letterari»: dunque il primo sia per l’individuo che per la intera umanità. Una complessità che riguarda il racconto, ma anche l’autore perché, ci ricorda il Prologo del Libro dei sogni «...l’anima, quando sogna, libera dal corpo, è al tempo stesso il teatro, gli attori e il pubblico... è anche autrice della storia a cui assiste».
La potenza dei sogni, e la loro preesistenza a ogni nostra intenzione cosciente, Ispira tanta soggezione che spesso gli antichi se ne tiravano fuori, attribuendoli alla voce di un dio. Mentre la modernità postreligiosa adotti» una scaramanzia opposta, riducendoli a piccole manifestazioni di disagio corporeo: «...ogni assurdità» ha detto Jung «viene considerati» scientifica purché prometta di trasformare in fisico ciò che è psichico».
Proprio come la parte universale della nostra mente, il narratore universale Borges non deve quindi né cambiare registro né giustificarsi passando dalla pubblicazione di racconti a quella di sogni. Anche nella curiosa pratica del mondo interiore che chiamiamo psicoanalisi, il sogno viene a volte detto «teatro interiore». Contrariamente alle divulgazioni, l’uso più costruttivo che una psicoterapia ne può fare spesso non è interpretarlo, ma riprodurne i dialoghi durante le sedute, come se esse fossero un palcoscenico. Quello che può smuovere una vita bloccata, infatti, non è tanto un’ennesima formula razionale, ma la evocazione del senso, testimoniato dall’emozione con cui i sogni perforano la mente. Del resto, contrariamente a un altro luogo comune, solo di rado la psicanalisi cura attraverso interpretazioni. Essa è a sua volta un genere piuttosto moderno e personale di racconto. James Hillman ha descritto le psicologie di Freud e di Jung non come teorie, ma chiamandole «storie che curano». Spesso, infatti, il processo psicoanalitico può restituire un senso alla vita riordinando la lenta rievocazione del suo caos in un racconto: seguendo dunque un codice che non è interpretativo, ma narrativo.
Luigi Zoja