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 2015  agosto 19 Mercoledì calendario

«Rivera chi?», disse appena arrivò al Milan. E nel giro di un anno tutta rltalia aveva un cappellino con attaccate dietro le treccine come le sue– In Italia non lo conosceva quasi nessuno

«Rivera chi?», disse appena arrivò al Milan. E nel giro di un anno tutta rltalia aveva un cappellino con attaccate dietro le treccine come le sue– In Italia non lo conosceva quasi nessuno. E lui nemmeno conosceva granché né l’Italia né il calcio italiano. Ruud Gullit era la stella del Psv Eindhoven e fu Nils Liedholm a consigliarlo a Silvio Berlusconi. L’aveva visto giocare e convinse il Presidente più o meno con queste parole: «È una forza della natura, è uno che può giocare in qualunque ruolo». Bastò. E quell’estate del 1987, quando arrivò a Milano presentandosi all’Italia, si capì in fretta il motivo. Perché Ruud Gullit è stato quello: un’irruzione di potenza nel mondo del nostro calcio, nel Milan di Arrigo Sacchi, quello del trio magico oranje: Gullit, Rijkaard, Van Basten. Però Gullit non era un angelo come Marco, non era bello e delicato ed elegante: era nero, molto nero, imponente, esplosivo. Soprattutto all’inizio, quando per molti era poco più di uno sconosciuto, era soltanto una cosa: quello con le treccine. Era i suoi capelli, Gullit (ora se li è tagliati, e non sembra più lo stesso, ha quasi l’aria seria e impegnata) e i suoi capelli hanno fatto il personaggio: è diventato riconoscibile da chiunque, anche da chi il calcio non lo seguiva. È arrivato da straniero ignoto ed è diventato un simbolo: ha portato irruenza, forza e carica di simpatia di una caratterizzazione inequivocabilmente black in un Paese che il nero non aveva capito bene chi fosse, sempre e comunque guardato con una diffidenza che paragonata a quella di oggi farebbe accusare di razzismo anche i più politicamente corretti dell’epoca. Il nero era solo e soltanto diverso. Magari non un nemico, ma forse sì. Invece Gullit, così nero e con quella chioma che si imponeva da sé, una personalità dentro e fuori dal campo, non poteva essere un nemico: era un amico, esuberante, amabile. Nell’Italia che non aveva ancora conosciuto lo charme fumoso della Jamaica, Gullit è stato il Bob Marley alla meneghina. Simpatico anche a chi non era milanista. Da quell’estate in cui arrivò in poi, l’Italia si riempì di cappellini rossoneri con attaccati i capelli di Ruud. Li vedevi in spiaggia e soprattutto li vedevi attorno a San Siro ogni volta che giocava il Milan. Si impose, Ruud. Con l’istinto più che con il fascino, la tecnica o la furbizia. Quel giorno d’estate in cui fu presentato ai tifosi milanisti entrò nella sede di via Turati e di fronte alla foto di Rivera non si trattenne: «E chi è questo?». Rivera, il mito. Rivera, la leggenda del calcio. Ecco, Ruud Gullit da Amsterdam non ne sapeva nulla. Non era per lui lo studio sui manuali, neanche di calcio. Lui non era un calciatore per devozione alla divinità del pallone, non era uno che amasse studiare o documentarsi, anche a rischio di fare una figuraccia che è passata negli annali. Gullit era energia, istintività, sport allo stato puro: un atleta, prima che un calciatore. Gullit, quello con le treccine, era una forza della natura. I campi di pallone li ha calpestati e corsi a modo suo, da vincitore: un Europeo con l’Olanda, due coppe dei Campioni consecutive con Sacchi, due coppe Intercontinentali, due Supercoppe europee, due Supercoppe italiane, due scudetti. Due, come i gol segnati nella finale di Coppa dei campioni del maggio del 1989, al Camp Nou a Barcellona, quando il Milan sconfisse la Steaua Bucarest quattro a zero. Quella doppietta, per i tifosi rossoneri è Gullit, è il marchio delle sue treccine. È la corsa con le braccia semi aperte e un atteggiamento che significa: «Che volete? Sono troppo forte». Gullit fu pagato 13 miliardi e mezzo: quasi dieci volte più di Van Basten, per capirci. Berlusconi volò personalmente a Eindhoven. Tornò a Milano col suo uomo con le treccine e l’amore durò sette stagioni (con un intermezzo di un anno alla Sampdoria). Pochi mesi dopo quell’estate calda e milanese, pochi mesi dopo la gaffe clamorosa sotto la foto di Rivera, Gullit vinse il Pallone d’Oro. Lo dedicò a Nelson Mandela. Un altro simbolo.