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 2015  agosto 15 Sabato calendario

LA SINDROME CINESE È UN PROBLEMA DA NON INGIGANTIRE

In giugno Shanghai ha perso il 35% in pochi giorni, spaventando i mercati. Poi la svalutazione a sorpresa dello yuan. Ora si teme che i problemi della Cina possano frenare la crescita mondiale. Timori rafforzati dalla deludente crescita del Pil dell’Eurozona (0,3% sul trimestre precedente, rispetto allo 0,8% medio prima della crisi del 2008) e da una domanda aggregata latitante, come indica l’inflazione, ferma allo 0,2%. Ma non è una sindrome cinese. Un problema esiste, però non va ingigantito.
Negli ultimi 15 anni, i Paesi occidentali hanno beneficiato in diversi modi della straordinaria crescita della Cina, (come di Brasile, Russia, India, Turchia, e altri). La crescita ha creato nuovi consumatori per beni e servizi prodotti occidentali (dalla moda alle auto di lusso); il governo ha investito massicciamente in infrastrutture, con tecnologia occidentale; le sue esportazioni a basso costo hanno calmierato l’inflazione ovunque. E la forte crescita ha fatto lievitare i prezzi di energia e materie prime, arricchendo i Paesi esportatori, che hanno poi riversato in Occidente gli ingenti capitali accumulati (aziende, titoli di stato, immobili, squadre di calcio). Nel decennio 2001-2011 la Cina è cresciuta in media del 10,7% (e 7,7% l’India, 5,5% la Turchia, 4,8% la Russia). Contro l’1,1% dell’Eurozona.
Tutto questo è finito per sempre. Una crescita così elevata non è sostenibile; non lo è mai stata. La Cina non fa eccezione. Motore della crescita cinese sono stati l’aumento esponenziale della forza lavoro (non agricola) e i massicci investimenti pubblici.
La crescita basata sull’aumento dei lavoratori trova però un limite nella produttività decrescente, nei problemi sociali che ne conseguono e nell’aumento dei salari. Anche gli investimenti (44% del Pil, più del doppio della Germania) non sono sostenibili: difficile trovare sempre nuovi investimenti con una redditività attesa adeguata. E concentrando la produzione sui beni di investimento, la Cina non può soddisfare la crescente domanda di consumi della nuova classe media.
La Cina ha dunque cominciato un’inevitabile transizione verso un’economia di mercato basata sui consumi interni: si occidentalizza suo malgrado. Gli anni della crescita al 10% sono finiti; ma anche l’attuale 7% non sembra sostenibile. Si prevede che nei prossimi due anni la Cina deceleri verso il 6%; e più in basso alla lunga.
L’Occidente deve quindi rivedere le proprie aspettative, adattandole a un futuro che negli Usa è stato definito “secular stagnation”. Doppiamente difficile per l’Italia, che ha colpevolmente perduto gli anni d’oro della crescita mondiale. Una crescita contenuta presenta anche qualche vantaggio: significa inflazione e tassi di interesse bassi e stabili, ovvero più potere di acquisto per i consumatori e minor rischi per gli investimenti delle imprese.
La transizione cinese richiede la costruzione di un vero mercato dei capitali e del credito in renminbi per finanziare l’espansione delle imprese locali; che non possono fare affidamento sul sistema bancario locale, inefficiente, e ora in dissesto.
Il primo passo per integrare la Borsa locale nei mercati internazionali, permettendo agli stranieri di investire liberamente a Shanghai tramite Hong Kong, e viceversa, è stato fallimentare. Bilanci e governance delle società cinesi sono opachi, le regole di mercato primordiali e soprattutto rimane in vigore un contorto sistema di quote imposto a chi vuole operare direttamente in Cina. Non sorprende che i capitali stranieri stiano alla larga. Si sono invece riversati in Borsa i risparmiatori cinesi, finanziati allegramente, creando la bolla scoppiata a giugno. Ora è una Borsa artificiale perché gli interventi pubblici limitano la significatività dei prezzi.
Ancora più cruciale la creazione di un mercato di corporate bond in renminbi. Solo poche aziende cinesi possono emettere in valute forti sui mercati internazionali, esponendosi però al rischio di cambio. In assenza di un sistema bancario solido, diventa prioritario permettere alle aziende cinesi di accedere direttamente al risparmio domestico e ai capitali internazionali tramite un mercato liquido di corporate bond.
Un afflusso di capitali è però impensabile con uno yuan che non rispecchia il valore di mercato. Le tre “svalutazioni” di settimana scorsa sono un primo passo in questa direzione. L’errore è stato farlo a sorpresa, a metà agosto. Che l’Occidente parli di guerra valutaria, dopo una svalutazione del 20% di euro e yen, è fuori luogo. Siamo di fronte, per lo yuan come per la Borsa, a obiettivi corretti perseguiti maldestramente da funzionari incapaci. Anche qui, c’è un lato positivo: per il risparmio globale, un mercato finanziario efficiente cinese potrebbe essere la migliore opportunità nei prossimi anni.