Luigi Bolognini, la Repubblica 18/8/2015, 18 agosto 2015
IVAN BASSO GIA’ PEDALA: «SONO FORTUNATO, TORNERO’»
A sentirlo parlare, con quella serenità d’animo che fa parte del suo carattere, vien da pensare che per Ivan Basso sia stato più difficile vincere due Giri d’Italia che la battaglia col tumore al testicolo sinistro che annunciò di avere il 13 luglio. «Alla fine è stato semplice, sì. Mai avuto paura di morire, mai pensato al fatto che mia madre di tumore è morta a 49 anni. Lei scoprì il male in fase molto più avanzata. Io ho capito subito la fortuna di quella caduta al Tour che ha permesso una diagnosi così precoce, con probabilità di farcela altissime. Quindi ho pensato solo a questo, grazie anche all’amore della famiglia, di colleghi, amici e perfetti sconosciuti che mi incoraggiavano. Ed eccomi qui». “Qui” è Livigno, dove il suo team, la Tinkoff Saxo, è in ritiro. Ma “qui” è soprattutto il sellino della sua amata bici, «da cui non ero mai stato lontano più di 10 giorni di fila, da quando avevo 3 anni. L’ozio in agosto è fantastico, l’avevo dimenticato, ma stavo andando in crisi di astinenza da manubrio e pedali». Non è ancora un cessato allarme, non del tutto: «La risposta ufficiale l’avrò con gli esami del 1° settembre, Tac e marker mi diranno se tutto è ok, sono sereno e fiducioso». E se sarà così? «Se sarà così, poi dovrò solo fare i periodici controlli di routine. Ma immagino che la domanda sia se tornerò all’attività agonistica. La risposta è: si vedrà. Non è ancora detto. Dovrò deciderlo con la mia squadra, esaminando bene il mio rendimento recente e soprattutto un fatto: voglio tornare a essere competitivo. In bici si può andare per stare bene fisicamente, e quello non lo smetterò mai, o per competere. E a me non mi interessa un ritorno tanto per ritornare». Considerati i quasi 38 anni e un 2015 non esaltante («ma il tumore non c’entra»), il dubbio resta, e piuttosto alto. «Qualunque cosa deciderò, ho il sostegno e il consenso della squadra, con cui ho un contratto ancora di un anno, ma è un gruppo di persone, più che un semplice team ciclistico. Tanto che nel finale di stagione starò con loro, anche se in borghese».
Non considera, non vuole considerare, il messaggio che lancerebbe un suo rientro in attività dopo un tumore. Lo stesso messaggio che – al netto di tutto quello che si è scoperto dopo – lanciò Armstrong a suo tempo: «Io non mi sento un esempio. Certo, come tutti gli sportivi posso veicolare un messaggio, che nel mio caso è quello dell’importanza della prevenzione e degli esami medici, e in questo spero di poter essere utile. Ma gli esempi veri sono le tante persone senza fama che soffrivano e lottavano nei letti d’ospedale intorno al mio».
Poi finalmente Ivan inforca la bici e se ne va a fare un giretto per Livigno. Andatura turistica, anche perché ogni due per tre qualcuno lo applaude, chiede un selfie o una stretta di mano. «Sarà che i miei nonni materni erano valtellinesi» scherza, guardando le montagne dove vinse il Giro 2010. «Ma non dimentico che nel 2005 a Livigno crollai, arrivai che era notte, Zomegnan mi disse che non aveva fatto smantellare le tribune solo per rispetto». Roba vecchia. Adesso a Livigno tutti quelli che lo fermano lo fanno solo per congratularsi con lui per una vittoria. L’ultima. Questa.