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 2015  agosto 15 Sabato calendario

VITA CON LA MUMMIA: «IO, MEDICO DI ÖTZI»

[Intervista a Eduard Vigl] –
È il 19 settembre 1991, ore 13.30. A 3.210 metri d’altezza sul confine fra l’Italia e l’Austria due turisti tedeschi fanno la più grande scoperta archeologica del secolo senza rendersene conto: il corpo dell’uomo venuto dal ghiaccio, come sarebbe stato battezzato. O uomo del Similaun, dal nome della montagna altoatesina vicina al ritrovamento. Una delle mummie più antiche dell’universo, che gli austriaci, i primi ad averla accudita per sei anni, chiamano Ötzi. Quest’uomo visse tra il 3350 e il 3100 a.C. Aveva 45 anni, era alto 1,60, pesava cinquanta chili e portava i capelli scuri, lunghi e ondulati. Aveva la barba. Ma per appena 92 metri e mezzo l’uomo del Similaun giaceva in territorio italiano. E perciò dopo l’inevitabile braccio di ferro, dal 1997 è tornato a casa, in Italia, dove riposa nel Museo archeologico di Bolzano.
E allora nessuno meglio dell’altoatesino Eduard Egarter Vigl, 66 anni, già a lungo primario ospedaliero di anatomia patologica e medicina legale a Bolzano e attuale direttore scientifico della Claudiana (struttura universitaria della sanità), conosce la seconda, lunga vita della mummia del Similaun. Da diciott’anni è il responsabile della cura e della conservazione. Più che un medico personale ne è diventato l’amico e custode d’ogni segreto.
Come sta l’uomo venuto dal ghiaccio?
«Si trova in una cella frigorifera al Museo archeologico di Bolzano, struttura che è il frutto di un ventennio di sperimentazioni. Un processo empirico che subisce modifiche continue quando la tecnologia ci dà qualche nuova possibilità. E quando la mummia, che stranamente non è sempre stabile, ma cambia, lo richiede».
Di che soffre l’illustre paziente?
«Di due “malattie”. La prima è l’ossidazione. Sta in un ambiente aerato. Sappiamo che l’aria che respiriamo ha il 25 per cento di ossigeno, che è un gas molto aggressivo: attacca tutti i composti organici e li ossida. Non è l’ideale per una mummia che deve mantenersi per generazioni. L’altro rischio è la disidratazione. La mummia è una cosiddetta mummia umida. Significa che nei tessuti, al contrario delle mummie egizie che sono secche, c’è una certa quota di acqua. Il che permette al campo sperimentale di riattivare dei composti chimici organici e studiarli meglio».
Che fa per “tenerla in vita”?
«Per cinquemila anni l’uomo è stato conservato nella neve e nel ghiacciaio: che cosa possiamo fare di meglio noi della natura? L’unica cosa è creargli un ambiente sterile attorno. Filtriamo l’aria della cella e tre volte all’anno sottoponiamo la mummia a profondi test micro-biologici».
I controlli dal medico, come quelli che fa ognuno di noi...
«Sono controlli di due livelli. Quello più basso avviene ogni settimana. Io dedico mezz’ora a guardare il sistema della registrazione del colore. Determinati punti della mummia sono illuminati con una luce artificiale ad onda lunga fissa e la luce riflessa viene registrata e analizzata per capire se ci sono cambiamenti. E poi il livello alto dei tre test».
Che cosa la colpì quando la vide per la prima volta?
«L’integrità del corpo. Professionalmente sono abituato a vedere i morti, anche quelli non proprio recenti. Ma non mi era mai capitato prima, neanche vedendo i cadaveri dei soldati della Grande Guerra che i ghiacciai restituiscono quando si ritirano. Mi colpì molto anche il volto espressivo. Ha il naso schiacciato e il labbro piegato in giù, ma gli occhi ci sono e si vedono. Un’espressione viva».
Di che colore sono?
«Occhi blu. Ma le analisi genetiche dicono che in origine l’iride fosse marrone: c’è stata una trasformazione del colore negli anni».
La scoperta più importante o sorprendente?
«La scoperta casuale della freccia sulla spalla sinistra. Quando il corpo fu trasferito da Innsbruck a Bolzano scoppiarono grosse polemiche politiche. Gli austriaci non volevano, i movimenti oltranzisti della destra dicevano “questo è un tirolese, deve rimanere qui, che ci fa in Italia?, gli italiani poi lo portano a Roma” e così via. Il ritrovamento era stato definito in territorio italiano. “Vedrete, fra tre mesi ce lo restituiranno perché non riescono a conservarlo”, ironizzava la stampa austriaca. Anche quando vennero pubblicati i primi risultati scientifici dei team italiani o altoatesini o anche misti con partecipazione locale i commenti non erano lusinghieri. Ma noi mantenemmo tutti gli impegni presi dagli austriaci anche con gli studiosi americani. E proprio in un’occasione del genere abbiamo scoperto, con una particolare radiografia, che una punta di freccia aveva colpito la mummia sulla spalla sinistra. Abbiamo scoperto noi la causa della sua morte! Per me questa è stata una grande soddisfazione e un po’ una bella ripicca di fronte alle critiche ricevute».
Ma quest’uomo millenario che lavoro faceva?
«Non lavorava manualmente. Viveva nel periodo di passaggio tra la società dei cacciatori-raccoglitori e quella agricola. Era muscoloso e ben fornito, ma aveva le mani da pianista, non certo da uno che utilizzasse le pale».
È vissuto cinquemila anni: quanto potrà vivere ancora?
«La conservazione attuale permette un mantenimento in buone condizioni per moltissimi decenni».
C’è chi parla di maledizione: otto persone che hanno avuto a che fare con la mummia sono morte. Normale statistica o meglio essere scaramantici?
«No comment. Ma ogni cinque anni faccio un check-up medico. Se poi esco per strada e una macchina mi mette sotto...»
Le capita mai di parlare al suo fedele paziente?
«Nei lunghi periodi di solitudine in due non credo di avergli parlato. Lui ha uno sguardo espressivo, ma quegli occhi fissi nascondono anche una certa vena di cattiveria. E talvolta mi viene da chiedergli: ma che vita hai vissuto?»
C’è un ultimo, grande mistero che non ha ancora risolto?
«Una volta all’anno io salgo sul punto del ritrovamento, in autunno, quando le baite chiudono, c’è calma e i pensieri possono vagare. E sempre mi chiedo: ma che cosa è venuto a fare quassù? Il posto, a 3.200 metri, è formato da un piccolo canalone con pareti di pietra alte sette, otto metri sul lato posteriore. Certo, all’epoca il clima era diverso, faceva un po’ più caldo e in altitudine c’era maggiore vegetazione. Ma lassù non c’è nulla. Regna la più completa solitudine. Che ci faceva quest’uomo con le mani da pianista, colpito a morte dalla freccia? Questo è il grande mistero».