Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 18/8/2015, 18 agosto 2015
LETTINI, BARBARI E WURSTEL: LA MECCA CHIAMATA RIMINI –
In mancanza di autostrade, Enrico Brizzi l’aveva affrontata a piedi. Dall’Argentario al Conero, allo scopo di non far volare via troppo in fretta l’illusione dell’adolescenza e rubare alla poetica della vescica, della tenda e della sofferenza, quel po’ di martirio che serve a ognuno di noi per sentirsi migliore. Il libro, bellissimo, si intitolava Nessuno lo saprà e nonostante dati una decina d’anni, è ancora filologicamente adattissimo a descrivere il silenzioso calvario che a più di 70 anni dal crollo della Monarchia, regna sull’automobilista inteso a tracciare una linea tra il Tirreno e l’Adriatico. Come al Luna Park – tre palle per abbattere il birillo – anche qui bisogna sfidare la sorte e sfidare un tris di tentativi per raggiungere la Mecca stesa tra la Romagna e le Marche. Le discoteche di Rimini e Riccione. Il quieto scalpiccio bilinguista, quasi altoatesino, di Birkenstock tra Gabicce Mare e Cattolica.
Il cartello “Willkommen”, ovunque, per i tedeschi che non mettono la pistola negli spaghetti in stile Der Spiegel anni 70, ma per contrappasso ospite, abbondano di würstel e patatine fritte sulla pizza. I venditori di calzoni e bombe alla crema – quelle vendittiane delle 6, quelle che non fanno male perché la felicità è più importante dei trigliceridi – sulle spiagge di Pesaro. Le scogliere del Conero, così simili a Brighton. Gli albergoni dominicani, più piani che anima, di San Benedetto del Tronto. Tutto ordinato, compatibile, comodo, familiare. Le cabine di legno. I bagni divisi dalle passerelle.
Il jumping per i bambini. Gli scogli all’orizzonte, come barriera contro l’erosione “perché quando eravamo cinni”, ti dice il bagnino bolognese emigrato in fretta a levigare di sole un volto fitto di rughe, spigoli e disegualità, quando erano ragazzi appunto, vitelloni nel litorale più amato da Fellini, “sulla sabbia potevi costruire una città”.
L’hanno edificata alle spalle del mare invece e l’hanno fatto con un obiettivo. Il denaro. Il turismo. La chiamata al secchiello di un intero popolo che da decenni, con contrazioni più o meno marcate in coincidenza di un allarme mucillagine, si riversa qui dall’alba dell’estate fino ai primi scampoli di autunno.
Da Roma, si diceva, il viaggio è un’ipotesi su carta. Puoi lasciare la rassicurante A1 a Orte, inerpicarti per una strada, la E45, la cui bellezza è pari solo alla pericolosità: “Ha visto i piloni di Verghereto?” – ti fa il benzinaio di un passo di montagna non distante dalla meta – “Si affacci, stanno sprofondando nel terreno”. Senza essere esperti di statica, qualcosa a Verghereto non va per il verso giusto. Si viene deviati a passo d’uomo su una mulattiera e dal ventre della montagna, per pressappochismo o suggestione, la vista sul pilone induce a dar ragione all’uomo della stazione di servizio. Si arriva all’altro mare, per arrivare si arriva, ma tra un autovelox nascosto dalle felci e un rischio in curva, più che fermarsi a Cervia bisognerebbe proseguire per Lourdes. La seconda possibilità, non troppo dissimile da quella di Brizzi, è ripetere l’incauto addio all’A1 e rischiare il passaggio umbro-marchigiano lambendo Gubbio tra gole di montagna e passi d’alta quota (il Furlo) perfetti per girare un film (Salvatores infatti, il delirio di Bentivoglio in Turné,
lo ambienta proprio qui) e utili per concludere la gita (solo andata) in 7 ore. Se non si vuole proprio tagliare per Via Maggio dalla E45, immettersi nel Montefeltro e passare tra scenari fiabeschi, ma lentissimi che guardano da basso la Pennabilli di Tonino Guerra sfiorando un Medioevo in cui è la natura a dominare: “Abbiamo una casa in un paesino dell’appennino, Gattara”, ti dice Andrea, il figlio di Tonino: “E qualche serio problema con una colonia di pipistrelli che si è infilata dal camino”, la terza e ultima suggestione – “la migliore, l’unica realistica, mica sarai matto?”, ti incitano tutti a gran voce è scegliere l’intero percorso “a pedaggio”.
Non c’è essere intellettivamente dotato che non te lo suggerisca, sorvolando sul mostruoso allungamento chilometrico e sull’abisso di cantieri e strettoie chiamato A14. Sui 730 km e oltre della seconda arteria più lunga del Paese si costruiscono nuove corsie, ma si va come in superstrada e si paga a prezzo intero. In un’area di servizio non lontana da Ancona, due poliziotti solidali in fila per il panino Icaro, ti danno ragione: “In queste condizioni l’autostrada dovrebbe essere gratis”, ma in mancanza di soluzione e colpi d’ala, più di un sorriso non possono offrire.
All’inizio degli anni 50, dividendo il mesto primato con la Liguria, l’Emilia Romagna aveva il maggior numero di colonie estive del paese. Si era figli di nessuno e a differenza degli agi vissuti dagli eredi dei gerarchi (in Estate violenta di Valerio Zurlini, Jean-Louis Trintignant, figlio di un noto fascista locale, ed Eleonora Rossi Drago si amano aspettando l’alba, un destino non benevolo e il feroce vento della storia sui pattini tirati in secca della spiaggia di Riccione) le vacanze rappresentavano poco più di un’appendice di tristezza in sandali e costume da bagno. Una volta chiuse, divennero un ricordo in bianco e nero anche le Colonie e si concessero spazio e orizzonti ai nuovi colonizzatori.
La Romagna, la gelida Romagna degli inverni innaffiati dalla neve, cambiava veste per proporre chilometri di lettini, piadine, altoparlanti testimoni della modernità dei tempi e gendarmi dei bambini per la tranquillità dei genitori: “La piccola Chiara, nove anni, è stata trovata tra i bagni Gina e lo stabilimento Kursaal, i genitori possono venire subito a riprenderla”.
Succedeva ieri e accade anche oggi, perché chi pedala verso la pensione con gli asciugamani appesi sul balcone, come il cazzo del proverbio napoletano, non vuole pensieri. Sono ragazzi alla prima vacanza collettiva che si comportano come uomini a cottimo e tornano adolescenti quando non bambini in discoteca. Sono marito e moglie che hanno trovato l’offerta giusta su Trivago. Sono statistiche, Pil, numeri della Confesercenti. Quest’anno buoni, finalmente, dopo estati in cui un po’ per posa, un po’ per automatismo, il piagnisteo sulle contrazioni turistiche era la regola.
A Rimini e a Riccione, regno dell’infante, del ragazzo senza impegni, del playboy e della comitiva che urla in piena notte i propri gridi barbari, post-umani e per chi li emette, senz’altro liberatori: “Ollellè, ollallà, faccela vedè, faccela toccà”, l’economia di base dell’italiano in vacanza è uno studio di settore. C’è il Grand Hotel di Rimini, dove il regista Federico amava camminare un po’ ricurvo e c’è l’albergo Lucia. Promessi sposi, le cinque stelle e la pensione, di un unico matrimonio in cui il divorzio è illecito e il tradimento non è previsto. Rimini Rimini un anno dopo non è soltanto un film. Una discoteca. Un titolo di giornale sul Cocoricò. È un’attesa. Un déjà-vu. Una pagina di Tondelli. “Una palude bollente di anime che fanno la vacanza solo per schiattare”.
(3 – continua)