Ester Corvi, MilanoFinanza 15/8/2015, 15 agosto 2015
GUIDA AL NUOVO YUAN
Dopo la svalutazione del 4,6% (in tre mosse) dello yuan contro il dollaro, dalla stessa People’s Bank of China (PboC) sono arrivate rassicurazioni ai mercati sul fatto che non ci sarà un «deprezzamento prolungato». Parole che sono servite a tranquillizzare chi temeva una maxi-svalutazione del 10% per risollevare l’export cinese, ma che non sono bastate a fugare i dubbi sulle prossime decisioni che saranno prese da Pechino e sulle conseguenze che avranno sull’economia reale e i mercati finanziari internazionali. Ecco dunque, in dieci punti, quello che c’è da sapere per investire alla luce della nuova politica valutaria di Pechino.
1) Quale segnale arriva dalla decisione della PboC?
Il cambiamento della politica valutaria cinese indica un peggioramento dello stato di salute dell’economia del Dragone. «Il rallentamento della crescita del pil», fa notare Martin Skanberg , gestore azionario di Schroders, «è testimoniato dai segnali ricevuti dalle imprese, che suggeriscono una contrazione considerevole dei volumi di transazioni commerciali, con i livelli delle esportazioni e delle importazioni significativamente più bassi». Nel primo semestre 2015 il pil è salito del 7%, l’aumento più limitato degli ultimi sei anni, mentre nel mese di luglio l’export è calato dell’8%. I Paesi che risentono più direttamente di questo cambio di passo sono gli emergenti, perché da un lato la Cina è per molti di essi il principale mercato di sbocco, e dall’altro risentono negativamente del calo dei prezzi delle materie prime, di cui sono forti esportatori.
2) Quali conseguenze ha tutto ciò per le borse?
I listini occidentali hanno reagito negativamente alle prime due svalutazioni decise da Pechino (martedì 11 e mercoledì 12) per poi tentare un rimbalzo dopo il terzo intervento (giovedì 13), rassicurate dalle parole di Yi Gang, vicegovernatore dell’istituto centrale cinese, che ha dichiarato «che non ci sono le basi per un’ulteriore svalutazione dello yuan». All’inizio della settimana si sono rivelate più vulnerabili le borse europee, che hanno evidenziato i maggiori ribassi, mentre Wall Street ha dimostrato una maggiore capacità di tenuta. Le aspettative di un rinvio al 2016 del cambiamento di rotta della politica monetaria della Fed, proprio a causa della svalutazione dello yuan, giocano temporaneamente a suo favore.
3) Quali sono i titoli europei più esposti?
I timori di rallentamento dell’economia cinese, principale motivazione alla base della decisione della PboC, hanno indotto forti correzioni sui listini europei dei titoli del lusso e dell’auto, i più esposti al calo del potere d’acquisto delle famiglie e delle aziende cinesi. Ma tali azioni non sono le uniche a rischio di contraccolpi. Fra le società europee più esposte ci sono, per gli analisti di Société Générale , anche aziende del settore chimico, meccanico e tecnologico, come Valeo (25% dei ricavi realizzati in Cina), Abb (27%), Atlas Copco (28%), Schneider (28%), Skf (25%), Nokia (30%) e Infineon Technology (23%). Da non dimenticare anche i gruppi finanziari come Hsbc (37%), Standard Chartered (68%) e Aberdeen Asset Management (36%). Bisogna però analizzare caso per caso per vedere il rapporto tra la quota di produzione in loco rispetto a quella esportata, oltre a verificare se e come si proteggono dal rischio di cambio. Al contrario saranno avvantaggiate le aziende che importano dalla Cina e vendono in Europa e quelle che beneficiano del calo del prezzo delle materie prime e in particolare del greggio. Per avere un’idea dell’interscambio con il Dragone, secondo le stime di Citibank, il 6% delle esportazioni totali dell’Eurozona sono dirette verso le Cina, da cui deriva invece il 10% dell’import. I gestori di Schroders stimano, sebbene non siano disponibili dati dettagliati, che circa il 12% delle vendite delle società incluse nell’Eurostoxx 50, ponderate per la capitalizzazione di mercato, siano dirette all’area Asia-Pacifico, ma soltanto il 2% verso la Cina. Queste cifre riguardano solo le vendite dirette, ma danno un’idea della scarsa dipendenza dal commercio cinese rispetto a quello europeo, rafforzata dall’esposizione degli utili societari (6% contro 59%).
4) E a Piazza Affari?
A livello macroeconomico l’impatto sulle esportazioni è limitato, visto che la Cina rappresenta solo il 2,6% dell’export totale italiano, contro il 9% che è destinato agli Stati Uniti e il 37% al resto dell’area euro. A Piazza Affari, al di là della correlazione con l’andamento delle borse internazionali, le conseguenze negative sono più evidenti per i titoli del lusso, come Salvatore Ferragamo che in Cina realizza il 32% del fatturato 2015 (stime Morgan Stanley), oppure Tod’s (25%). Nel caso di Prada, quotata però a Hong Kong, la percentuale è del 31%. In generale, secondo gli analisti di Kepler Cheuvreux, attualmente le azioni italiane trattano in linea con quelle europee in termini di multiplo prezzo/utile (p/e) 2017, che è intorno a 14, con una previsione di aumento annuo dell’utile per azione 2014-2017 del 37% rispetto al 10% dei titoli europei, a fronte di un rendimento della cedola del 3% nel 2015 e 2016. Trattano invece a sconto in termini di ev/ebitda (valore d’impresa/reddito operativo lordo): 6 contro 7,5. Fra le aziende che possono beneficiare del mini-yuan c’è Piaggio , «La svalutazione del renminbi può essere un’opportunità», ha dichiarato il numero uno del gruppo, Roberto Colaninno. La società è da anni socio paritetico in una joint venture produttiva con sede a Foshan, nel Guangdong, le cui attività di export erano diventate meno competitive proprio a causa dell’apprezzamento dello yuan «e ora potranno trovare nuovo impulso grazie alla svalutazione della moneta cinese». Dal calo del prezzo del Brent possono invece trarre vantaggio le compagnie di raffinazione, come Saras . In genere gli analisti consigliano di preferire in questa fase i titoli meno esposti verso l’estero, come i bancari, gli assicurativi e le utility.
5) Quanto ne risentono le multinazionali Usa?
Wall Street può beneficiare del possibile rinvio dell’intervento sui tassi al 2016 ma, a differenza dell’Europa, l’esposizione verso la Cina è molto più consistente. Si deve tuttavia distinguere fra le società penalizzate perché realizzano una quota consistente delle vendite in yuan e quelle che, producendo in Cina, beneficiano di costi più bassi. Le preoccupazioni sul futuro dell’economia del Dragone hanno conseguenze sui colossi come Apple, Coca-Cola, Procter & Gamble, Johnson&Johnson per i quali la Cina è uno dei mercati di sbocco più importanti per volumi di vendite. Inoltre in alcuni settori, come quello della tecnologia, la competizione di prezzo delle società asiatiche diventerà più forte.
6) Continuerà la fase ribassista dei titoli minerari?
Per questi gruppi sono tempi difficili, dato che risentono sia del calo dei prezzi delle materie prime che del rallentamento della crescita globale. Fra i più esposti all’Asia ci sono Bhp Billiton (35% del giro d’affari in Cina), Glencore (39% dei ricavi in Asia) e Rio Tinto (38% del fatturato in Cina).
7) Che conseguenze ha sull’inflazione?
La svalutazione dello yuan e il conseguente calo dei prezzi delle materie prime eserciteranno una pressione al ribasso sui tassi di variazione dei prezzi nei Paesi occidentali. Quelli all’importazione nei Paesi sviluppati sono destinati a scendere, comprimendo a loro volta i prezzi alla produzione e al consumo. La grande quantità di beni prodotti in Cina e consumati nel mondo occidentale sono destinati a diventare ancora più economici. «La deflazione è generalmente positiva per i titoli di Stato, ma crea pressione sui mercati azionari» sottolinea di Jian Shi-Cortesi, gestore del fondo JB China Evolution.
8) Cosa implica per i tassi?
Le deflazione importata negli Usa, a causa del calo dei prezzi delle materie prime, permetterà alla Fed di posticipare la manovra sui tassi al prossimo anno. Secondo Anthony Doyle, responsabile Fixed Interest di M&G Investments. «Qualsiasi mossa volta a indebolire lo yuan nei confronti del dollaro Usa avrà probabilmente un effetto marginale rialzista per i Treasury, con conseguente calo dei rendimenti. Se lo yuan perde valore, la Cina avrà più dollari Usa da investire in Treasury attraverso l’accumulo di riserve estere, il che fa presagire un incremento della domanda. Tuttavia, in assenza di un declino sostenuto dello yuan, sembra difficile che questa mossa abbia un impatto consistente sulla domanda di Treasury nel breve termine».
9) Quali materie prime sono più colpite?
L’effetto più rilevante è sul rame, perché è dal settore costruzioni e infrastrutture cinesi che proviene la maggiore domanda mondiale, ma le conseguenze si estendono anche ad altri metalli come nickel e zinco. Grazie alla svalutazione diventano invece più competitive le esportazioni dalla Cina di acciaio e alluminio. Riflessi negativi anche per le valute più sensibili alle commodity come il dollaro australiano. Discorso a parte merita l’oro perché spiega Jian Shi-Cortesi «tende ad avere una buona performance quando ci sono forti timori di deflazione».
10) Che cosa significa per le valute emergenti?
L’effetto domino si è esteso ai Paesi emergenti, perché se la congiuntura cinese dovesse peggiorare vedrebbero drasticamente scendere le loro esportazioni. Fra le valute degli emerging market che gli esperti di Ubs ritengono più a rischio ci sono il dollaro di Singapore, il bath thailandese e la rupia indiana. (riproduzione riservata)