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 2015  agosto 15 Sabato calendario

NELLE MANI DI MAO

Dopo tre giorni consecutivi di svalutazioni dello yuan, il quarto giorno la Banca del Popolo cinese si riposò. E il resto del mondo continua a farsi domande sugli effetti di questa mossa che ha colto tutti di sorpresa. Il bilancio finale di questi quattro giorni di fuoco è che dall’11 al 14 agosto la valuta cinese ha perso il 2,8% nei confronti del dollaro.
Davvero poco per rilanciare le esportazioni. E infatti circola voce che gli industriali cinesi e parte del governo abbiano chiesto con forza una svalutazione del 10%. Voci «senza senso», le ha definite Yi Gang, il numero due della Banca del Popolo cinese. Tanto che il giorno dopo non c’è stata alcuna svalutazione ulteriore. Tanto rumore per nulla, quindi? La reazione iniziale delle borse mondiali è stata esagerata? Va bene che ormai per gli operatori di borsa è decisivo anche il millesimo di secondo, ma qui si parla di Cina e pertanto vale il modo di ragionare di Zhou Enlai, il primo ministro di Mao che a una domanda sulla rivoluzione francese rispose: «È troppo presto per dare un giudizio».

Una cosa, però, è sicura: la Banca del Popolo ha voluto sganciare lo yuan dal dollaro per svalutarlo nei confronti di altre monete, visto che a Pechino danno per scontato che il biglietto verde è destinato a rafforzarsi ulteriormente. La Cina ha molto più bisogno che lo yuan si svaluti nei confronti dell’euro, dato che il suo primo partner commerciale è l’Europa, non gli Stati Uniti.
E infatti, grazie allo sganciamento dal dollaro, in quattro giorni lo yuan ha perso il 4,7% nei confronti dell’euro, un calo decisamente più sostanzioso e gradito a Pechino. Un bell’aiuto per le esportazioni cinesi, che a luglio sono diminuite dell’8,3% su base annua. Se le svalutazioni si fermeranno qui, allora si potrà dire che la Banca centrale cinese è stata sincera quando ha giustificato la sua mossa dicendo che consentirà ai mercati di avere un ruolo maggiore nel determinare i tassi di cambio. Non per niente, il Fondo Monetario Internazionale l’ha accolta con favore. L’obiettivo della Cina è far entrare lo yuan nel paniere dei diritti speciali di prelievo, l’unità di conto dell’Fmi, ora costituita da dollaro, euro, yen e sterlina; il che sancirebbe la sua ascesa tra le valute di riserva mondiali. Una volta raggiunto questo status, lo yuan potrebbe lanciare la sfida al dollaro. Ma qui si sta andando troppo oltre. Guardando all’immediato è certo che lo sganciamento dal biglietto verde e il conseguente indebolimento nei confronti delle altre valute consentirà alla Cina di dare una spinta alle sue esportazioni e di contenere la concorrenza di altri Paesi asiatici che puntano tutto sul basso costo della manodopera, come il Vietnam, che ha subito risposto allargando la banda di oscillazione sul dollaro. Se entro fine anno Pechino avrà svalutato del 10% nei confronti del biglietto verde e quindi molto di più verso l’euro, vorrà dire che l’economia cinese è davvero in gravi difficoltà. Da tempo nessuno si fida più delle statistiche ufficiali cinesi, che hanno indicato una crescita del pil del 7% nel secondo trimestre. Ma la frenata della produzione industriale, che a luglio è cresciuta del 6% su base annua contro il 6,8% di giugno, ha destato una certa preoccupazione. Secondo Marc Faber, guru dei mercati asiatici, «l’economia cinese è molto più debole di quanto si pensi. Al momento la crescita del pil potrebbe essere nulla o forse del 2%». Cifre che per un Paese ancora in via di sviluppo (perché tale è la Cina, in quanto sta nella parte bassa della classifica mondiale del pil pro capite) equivalgono a una caduta in recessione. E così potrebbe essere già superato lo scenario peggiore, esaminato da Unicredit , di un graduale rallentamento dall’attuale 7 al 3% nel 2020. In questo caso, nel periodo preso in esame per l’Italia la variazione negativa del pil sarebbe intorno all’1,5%, mentre per la Germania arriverebbe fino al 3% e per Eurolandia nel suo complesso al 2%.

Bene anche per l’Italia, quindi, che la Cina adotti le sue contromisure. Peccato che nell’immediato la svalutazione dello yuan possa recare più danno che guadagno alla zona euro. Questo perché rischia di rianimare lo spettro della deflazione, che ha già cominciato a fare capolino a causa della caduta dei prezzi delle materie prime. I dati di luglio relativi all’inflazione in Eurolandia sono inquietanti: su base annua l’indice è salito solo dello 0,2%, mentre rispetto al mese precedente è sceso addirittura dello 0,6%. In deflazione sono già da tempo la Grecia (-1,3% su base annua) e Cipro (-2,4%), mentre è appena entrata a fare parte del club la Finlandia (-0,1%). Ma sono a un soffio dal segno meno la Spagna, con inflazione zero e la Germania con un misero +0,1%. E non sono certo in zona di sicurezza la Francia (+0,2%) e l’Italia (+0,3%).

Se si vuole trovare una nota positiva in questa situazione è che le nuove spinte deflazionistiche innescate dalla frenata dell’economia cinese, con il conseguente calo della domanda di materie prime, e della svalutazione dello yuan, rendono possibile addirittura un aumento del Quantitative easing da parte della Bce o a estenderlo ben oltre il settembre dell’anno prossimo, prospettive che notoriamente fanno bene alle borse. Lo ha fatto capire chiaramente lo stesso istituto guidato da Mario Draghi nelle minute relative alla riunione del direttivo del 15-16 luglio scorso, poco meno di un mese prima della svalutazione dello yuan: «Gli sviluppi finanziari in Cina potrebbero avere un impatto negativo superiore al previsto» e il rischio «potrebbe essere aumentato dagli effetti negativi del rialzo dei tassi Usa sulla crescita dei Paesi emergenti», è scritto nelle minute. E secondo Filippo Diodovich, strategist di Ig, «il basso livelli dei prezzi dell’energia e i timori sulla crescita della domanda globale potrebbero convincere le colombe della Federal Reserve a insistere per posticipare la stretta monetaria». Causa Cina, insomma, scendono le probabilità di un aumento del costo del denaro Usa a settembre, che potrebbe essere rinviato addirittura all’inizio dell’anno prossimo, come del resto ha già detto che farà la Banca d’Inghilterra. L’era dei tassi zero potrebbe quindi non essere finita e le borse sono pronte a ringraziare.

Da qui alla fine dell’anno, insomma, la situazione potrebbe addirittura favorire le borse. Sempre che la Cina non esageri con le svalutazioni e non sia davvero in recessione, ovvero la sua crescita non risulti inferiore al 3%. Perché se si verificasse lo scenario peggiore, descritto il mese scorso da Credit Suisse, nessuna banca centrale sarebbe capace di resistere all’onda d’urto. Secondo la banca elvetica, infatti, in Cina rischiano di scoppiare tre bolle: del credito, degli investimenti e del settore immobiliare. Se i prezzi degli immobili dovessero scendere di un altro 15% e la crescita dei depositi bancari si fermasse, allora il pil crescerebbe meno del 3%. La Cina sarebbe in pratica in recessione. Per evitare questo scenario bisogna affidarsi alle capacità del Partito Comunista Cinese, che in occasione del recente crollo delle borse di Shanghai e Shenzhen ha dimostrato di non avere remore nell’intervenire con decisione (ma attenzione al rovescio della medaglia: i mercati azionari cinesi sono ormai in mano allo Stato). Ma a complicare la situazione ci sono le voci di un inasprimento delle lotte di potere all’interno del Partito e i flussi di capitale in uscita dalla Cina non sono solo il segnale che la lotta alla corruzione sta avendo successo. Secondo Dennis Tan, strategist di Barclays per il mercato valutario, le autorità cinesi «sono favorevoli a una modesta svalutazione, ma non vogliono che gli scappi di mano». Un discorso sintomatico del sentiment più generale. Nel mondo sviluppato vanno bene solo le economie di Usa e Regno Unito, che comunque cresceranno meno del 3% quest’anno. Un ritmo che non le rende capaci di trascinare la zona euro fuori dalle secche della stagnazione. La Fed e la Bce sono ormai a corto di munizioni e quindi gli unici che hanno ancora delle carte da giocare stanno a Pechino. Qualcuno ha ironizzato sul fatto che «un tempo si cercava conforto nella religione, mentre oggi confidiamo nel Partito Comunista Cinese». Se la sfanghiamo anche stavolta, tutti in pellegrinaggio al mausoleo di Mao.