Amedeo Feniello, Corriere della Sera - La Lettura 15/8/2015, 15 agosto 2015
RE DI DENARI
Chi conosce i Fugger? Con questa domanda lo storico Jerry Z. Muller ha aperto un suo recente articolo sul «New York Times» per recensire il volume di Greg Steinmtez sul banchiere cinquecentesco Jakob Fugger intitolato The Richest Man Who Ever Lived . Una domanda tutt’altro che retorica, perché Muller aggiunge una cosa inaspettata: che se i Fugger sono ben conosciuti in Germania, lo sono meno altrove come nel mondo anglosassone. Fatto che stupisce. Perché almeno per me (sebbene la mia opinione faccia poco testo…) i Fugger non sono soltanto un oggetto di lavoro. Essi sono entrati prepotentemente nel mio immaginario attraverso le pagine del più bel romanzo storico dell’ultimo trentennio, Q , del collettivo Luther Blissett (oggi Wu Ming). Nel quale viene descritta tra l’altro la trama pervasiva delle rete dei banchieri tedeschi e le sue influenze sull’Impero e sul Papato. Che il protagonista del libro cerca di scardinare grazie all’immissione sul mercato finanziario di un numero enorme di lettere di cambio false a nome Fugger. Un virus: per distruggere la banca e trascinare con sé, in una spirale perversa, il sistema della Chiesa cattolica.
L’origine di questa vera e propria multinazionale risale alla seconda metà del Trecento. Una storia che parte dal basso. Il capostipite è Hans, un contadino dei dintorni di Augusta, in Baviera. Nel 1367 lascia la campagna e si installa in città. Prima fa il tessitore. Ma ha idee ed è capace di guardare al di là del proprio naso. E si allarga. I suoi affari prosperano. Stringe forti contatti con l’Italia. E, come i suoi omologhi toscani, comincia a guardare agli investimenti finanziari. In questa ascesa lo seguono i figli, Andrea e Jakob «il Vecchio», che scindono la società. Con due differenti branche. La prima corre velocissima. Una lepre. E conosce una fortuna rapida grazie al commercio di fustagni, sete e spezie. Una crescita che si incrina ben presto. Fatalmente. Con il fallimento, all’inizio del Cinquecento. L’altra branca, quella di Jakob «il Vecchio», invece, è slow . Lenta come una tartaruga. Ma si consolida a poco a poco, su basi sempre più compatte. Con un grande colpo di fortuna: diventa fornitrice della corte imperiale.
La famiglia del «Vecchio» è bella grossa, come d’abitudine. Tanti figli. Il decimo si chiama come il padre. Sarà il genio della casata. Jakob il «Ricco». È incredibile ma vero: era destinato a diventare prete, perché qualcuno in famiglia che non facesse il mercante ci voleva, giusto per diversificare. Ma il ragazzo ha doti da vendere. Lo mandano a farsi le ossa in Italia, a Venezia, dove impara le tecniche. A maneggiare la partita doppia. A familiarizzare con le lettere di cambio. Poi torna a casa. Nel 1487 prende in mano l’azienda: ha ventotto anni. Negli affari è un visionario che non si contenta di perseguire i filoni tradizionali del commercio familiare. Intuisce che c’è una Mecca che può essere raggiunta, che si chiama sfruttamento minerario. Del rame e dell’argento. Mette le mani sulle miniere del Tirolo, possedute dagli Asburgo. E lo fa con uno strumento consueto per gli uomini del grande capitale: gliele sottrae pian piano, perché prima il gran duca Sigismondo e poi l’imperatore Massimiliano hanno bisogno di soldi per finanziare imprese militari e politiche. E Jakob i soldi glieli dà. In cambio di ipoteche sull’utilizzazione delle miniere. E quando i prìncipi si rivelano incapaci di rimborsare il debito, il gioco è fatto: Jakob le fa sue. E, soprattutto, le rende più efficienti e remunerative.
Poi fa un passo ulteriore. Con due colpi le cui conseguenze travalicheranno la vita di Jakob e cambieranno per molti versi le sorti d’Europa. Innanzitutto, si lancia sul mercato delle indulgenze, che i fedeli accettano per ottenere la remissione dei peccati. Fondi che devono servire alla costruzione della basilica di San Pietro a Roma. Con un effetto di proporzioni mostruose. Perché da un capo all’altro d’Occidente si scatenano, insieme ai desideri di vita eterna, le proteste di chi considera questo commercio increscioso, simoniaco, scandaloso. Finché un monaco agostiniano, a Wittenberg, propone 95 tesi rivoluzionarie. È Martin Lutero. È la Riforma.
L’altro colpo è politico. Jakob viene coinvolto, nel 1519, da Carlo I di Spagna che cerca di ottenere per sé il trono imperiale dopo la morte del nonno, Massimiliano. Infatti, per avere il titolo, deve convincere i grandi elettori tedeschi. Per farlo, molti li deve comprare. E i soldi chi ce li mette? Jakob, che fornisce una cifra incredibile: 543 mila fiorini. E così viene eletto Carlo V. E il favore fatto resta sospeso sul capo dell’imperatore. Cui il banchiere ricorderà sempre che parte del suo successo lo deve all’efficace opera di oliatura dei prìncipi tedeschi.
Da allora, in tutta Europa risuona il nome Fugger. Che corre così come s’estende l’impero dove non tramonta mai il sole. Dalle Fiandre a Napoli, dalla penisola iberica alle Americhe. E l’uomo diventa il più ricco di tutti. Ma non dimentica i suoi doveri di cristiano, come costume tra i mercanti del tempo. E fa costruire ad Augusta una chiesa e un ospizio per i poveri, il Fuggerei. Ma le cose, ben presto, precipitano, con un cliché classico che si incontra spesso nella vita di tanti banchieri non solo di età preindustriale. I prestiti all’imperatore aumentano: per finanziare le guerre, tra cui quelle d’Italia; per i conflitti religiosi, che straziano l’Europa; per le spese di corte e di governo. Ma le difficoltà non si arrestano. Cosa dire ad esempio dell’inflazione, causata dall’afflusso di oro e di argento dalle Americhe, che ebbe un effetto violento sulle finanze dello Stato? Quei prestiti, ritenuti dai Fugger il miglior affare possibile, si trasformano in un incubo. Perché l’imperatore non è solvibile. E, come lui, suo figlio, il re di Spagna Filippo II, che farà bancarotta nel 1557 e nel 1575.
Dopo la morte di Jakob, il nipote Anton (1493-1560) cerca di mantenere la barra dritta. Ma invano. Con un crescente indebolimento. Nonostante il credito da riscuotere dagli Asburgo che raggiunge, negli anni Cinquanta del secolo, i quattro milioni e mezzo di fiorini. E così i Fugger crollano. Senza bisogno alcuno di virus, come immaginato nella fiction di Luther Blissett. Bastò che si legassero, e tanto, agli Asburgo. E precipitassero, coinvolti nello stesso destino di declino.