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 2015  agosto 15 Sabato calendario

I NEGOZIATI SEGRETI

NEW YORK Due anni fa, al G20 di San Pietroburgo, quando avevo chiesto a Ben Rhodes, braccio destro di Obama sulla politica estera, del «no» del Papa a un intervento militare in Siria, avevo ricevuto una risposta vagamente irritata. A quei tempi il presidente Usa appariva ancora deciso a punire Assad per l’uso di armi chimiche con una campagna di bombardamenti. Ma poi ci ripensò, venne l’intesa per il disarmo chimico e nel marzo dello scorso anno, nei giorni della mia intervista a Barack Obama che andava a incontrare per la prima volta papa Francesco, il tono di Rhodes era cambiato: «Eh sì, aveva proprio ragione lui, il Pontefice». Un Pontefice che di lì a poco avrebbe aperto la strada dello storico riavvicinamento Usa-Cuba: nei mesi successivi, papa Bergoglio scrive una lettera a Obama e a Raul Castro sollecitando una soluzione delle controversie. Verranno recapitate di persona dal cardinale Ortega, già sensibilizzato al caso da alcuni parlamentari Usa. È lui, arcivescovo dell’Avana, a consegnare personalmente la missiva al presidente cubano e alla Casa Bianca, dove si reca in segreto durante un viaggio a Washington: ufficialmente è lì per una conferenza alla Georgetown University.
Nei giorni che hanno preceduto la riapertura dell’ambasciata americana all’Avana, i media americani, dal Washington Post a Mother Jones , si sono riempiti di ricostruzioni dettagliate delle trattative segrete che hanno portato alla ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Del ruolo centrale svolto dal Vaticano e dell’impegno personale del Pontefice si sapeva già dal dicembre scorso, ai tempi del primo annuncio e della liberazione dei prigionieri.
Ma la complessità del negoziato, le rotture rischiate per l’accanimento cubano su Alan Gross, un «contractor» americano in carcere da anni, il rischio di un cedimento del prigioniero e di una sua morte in cella che avrebbe compromesso ogni sforzo, stanno venendo fuori solo oggi. Con episodi inediti: come la richiesta della Casa Bianca di nascondere la gravidanza della moglie di una delle spie detenute in America, alla quale era stato consentito di dare il suo sperma per un’inseminazione artificiale.
Fino al racconto di Rhodes al New York Times della drammatica estate di un anno fa, con lo stallo negoziale e poi l’improvvisa individuazione di una possibile via d’uscita per salvare la faccia di tutti i protagonisti della trattativa. Rhodes, che ha condotto il negoziato segreto insieme a un altro funzionario della Casa Bianca, Ricardo Zuniga, un americano originario dell’Honduras, ha ricostruito col quotidiano il momento-chiave quando, nel settembre scorso, si recò in Vaticano con l’ultima proposta americana: «“Adesso siamo nelle mani del Papa”, dissi al mio compagno lasciando la Santa Sede».
La «coraggiosa decisione di smettere di essere prigionieri della storia», parole pronunciate ieri da John Kerry, Barack Obama l’aveva presa già all’atto del suo insediamento alla Casa Bianca, all’inizio del 2009: il nuovo president mandò subito segnali di disgelo: meno restrizioni per i viaggi delle famiglie cubane e per le rimesse dall’estero, collaborazione culturale e accademica. Ma a dicembre di quell’anno tutto si bloccò per l’arresto di Alan Gross, un «contractor» del governo Usa. Per rilasciarlo, il governo dell’Avana chiedeva come contropartita la liberazione di cinque spie cubane arrestate in America. Inaccettabile per Obama: acconsentire allo scambio con i cosiddetti «Cuban Five» avrebbe significato mettere Gross sullo stesso piano delle spie.
Lì è cominciata un’altra lunga notte nei rapporti tra Usa e Cuba. Ma, a differenza dei 10 presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca dopo la rottura delle relazioni, nel 1961, Obama era deciso ad accettare il metodo del negoziato diplomatico col governo castrista. Comincia così un’avventurosa storia di diplomazia sotterranea condotta in segreto da due funzionari della Casa Bianca. Kerry è sempre stato informato, ma la grande macchina del dipartimento di Stato è rimasta in disparte, nel timore di fughe di notizie.
Quando le trattative sono riprese e sono entrate nella fase cruciale, nel 2013, i negoziatori hanno cominciato a incontrarsi a Ottawa, in Canada, lontani da occhi indiscreti. Si facevano progressi, ma sullo scambio dei prigionieri i cubani non mollavano mentre Gross, ormai allo stremo, tra scioperi della fame e minacce di ribellione rischiava di morire in carcere. Circostanze drammatiche che spinsero lo stesso Obama a mandare un messaggio personale al detenuto: «Tieni duro, ce la faremo».
Pian piano, dopo l’azione di ricucitura svolta a L’Avana e a Washington da due parlamentari Usa — il democratico Patrick Leahy e il repubblicano Jeff Flake, in contatto con la famiglia Gross ma anche coi parenti dei detenuti cubani — anche il lavoro dei diplomatici si mette sul binario giusto. E con l’inserimento nella trattativa di un cubano in carcere da vent’anni all’Avana che effettivamente aveva spiato per gli Usa, lo scambio dei prigionieri diventa finalmente possibile.