Federico Fubini, Corriere della Sera 15/8/2015, 15 agosto 2015
L ’EUROPA ANEMICA
Enrico Diddi ha una sua idea sul perché gli economisti adesso dicono che questa è una ripresa anemica: si era dato appuntamento a dieci anni dopo ma ora, quando è venuto il suo momento, ha passato la mano.
L’azienda che controlla si chiama Nobilia. Da Prato nel 2005 Diddi l’aveva spostata a Suzhou, non lontano da Shanghai: in fabbrica entrano fili di lino o di cotone ed escono tessuti pronti per l’ago. Diddi, che ora ha 54 anni, si era impegnato a rimpatriare più o meno in questo periodo il suo investimento da 25 milioni di euro e 250 addetti. Poi al dunque ha capito che doveva scegliere cosa lasciar cadere: la sua promessa o le commesse di Banana Republic e di Gap, i grandi marchi americani della moda di massa: «Se torno in Italia - ammette - costerei troppo per loro». I nuovi contratti di lavoro flessibili del Jobs Act, gli sgravi alle assunzioni stabili, la limatura dell’imposta sulle attività produttive, il dimezzamento del costo del petrolio, i tassi bassi imposti dalla Banca centrale europea con i suoi interventi e persino l’euro debole, per Diddi, non contano tanto quanto i calcoli che ha fatto da tempo. Non riequilibrano neanche lontanamente.
Per l’Italia e gran parte dell’area euro, questa si sta dimostrando una ripresa lenta, povera di occupazione eppure in qualche modo effettiva. Non appena Diddi ha capito che trattando gli scarti del cachemire lavorato in Cina poteva surrogare la piuma d’oca, ha lanciato una nuova azienda di piumini a Prato: investimento recente, mercati in tutto il mondo, dieci addetti.
Il paradosso è proprio in questa strana inversione dei fattori. Se oggi Paesi come l’Italia, la Germania, la Francia o la Spagna crescono, in gran parte è perché le esportazioni le spingono in avanti. Eppure il propellente dell’export e dei posti di lavoro del futuro, l’istinto di investire, non è mai stato così scarso. In Germania gli investimenti pesano appena per il 20% dell’economia, sotto i livelli del 2007 e molto sotto le medie dei Paesi avanzati, benché l’export contribuisca al 45% del prodotto lordo (Pil). In Italia gli investimenti sono crollati di 75 miliardi dal 2007 al 2014 e oggi sono al punto più basso, in proporzione al Pil, fra tutte le principali economie europee. Anche in Francia e in Spagna gli investimenti pesano meno di otto anni fa e non stanno certo crescendo. Non è solo Diddi di Prato: anche Volkswagen continua a versare decine di miliardi per nuovi impianti, ma lo fa in Slovacchia o in Cina.
Le migrazioni produttive verso i territori a basso costo non iniziano certo oggi, solo che questo non è un momento come gli altri: a differenza degli Stati Uniti, l’economia dell’area euro resta tuttora più piccola di com’era nel 2008, prima che Lehman portasse i libri in tribunale. È vero che Germania e Francia ormai hanno superato i livelli pre-crisi e veleggiano su un reddito nazionale mai raggiunto prima; ma la Spagna del 2015, anche in netta ripresa, rimane economicamente più piccola di quella del 2007. E l’Italia, in ripresa timida, non ha ancora neanche rivisto i livelli di reddito nazionale dell’anno duemila.
In questo proprio l’Italia, secondo Eurostat, è il sistema più anomalo. È il secondo produttore di beni industriali d’Europa e, comprensibilmente, si considera una potenza esportatrice. Pochi però sembrano essersi accorti che fra i quattro grandi Paesi di Eurolandia è quello che dipende di più dai consumi delle famiglie (60% del Pil) e, insieme alla Francia, presenta il minor peso dell’export sul totale dell’economia (29%). In questi anni invece la Spagna ha compiuto un silenzioso sorpasso, aumentando di molto la sua quota di export sul Pil (al 32%). L’economia italiana dipende ancora dalla spesa delle famiglie, le quali però tengono il portafogli chiuso perché nel Paese appena un terzo degli abitanti lavora: non ci sono abbastanza buste paga.
Forse questo spiega perché neanche l’euro debole, gli sgravi sui nuovi contratti, la forte domanda di made in Italy dall’America, i tassi bassi e il petrolio ai minimi riescano a rendere questa ripresa più tangibile. Il punto è capire quanto saliranno il deficit e il debito pubblico quando questo allineamento di fattori benigni verrà meno. Quando magari l’economia italiana dovesse rallentare. Lorenzo Codogno, fino a febbraio scorso capo-economista del Tesoro, non è preoccupato: «Anche se a ritmi non esaltanti, la ripresa continua - osserva -. Nella seconda parte dell’anno si rafforzerà e nel 2016 potrebbe sorprendere». Codogno però ha un consiglio per il governo: «L’annuncio di un forte taglio delle tasse sul lavoro e le imprese è stato giusto e coraggioso, ma non possiamo permetterci di far salire il deficit. Serve una sforbiciata alla spesa, magari di 20 miliardi già il prossimo anno».
Anche Diddi, l’imprenditore di Prato, ha una sua ricetta: «Qualcuno dovrebbe investire», propone. Ma è inutile chiedergli se sarà lui: «Non sarei più competitivo».