Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore 14/8/2015, 14 agosto 2015
UN BALZO IN AVANTI VERSO LA CONVERTIBILITÀ
È una lunga, lunghissima marcia quella del renminbi verso l’internazionalizzazione. La tappa di martedì, con la modifica delle regole per determinare il tasso di cambio, è solo la più recente. È anche la più importante dal 2005, quando Pechino abbandonò l’ancoraggio (il peg) al dollaro. Ma il punto di partenza può esser fatto risalire fino alle riforme dell’era Deng Xiaoping, alla fine degli anni 70. Una moneta internazionalizzata, magari ammessa nel paniere dei diritti speciali di prelievo dell’Fmi, serve alla Cina non solo per questioni di rango geopolitico. Fare del renminbi una valuta di riserva come il dollaro aiuterebbe a indirizzare i flussi di capitale sul settore privato, contribuirebbe a diversificare i rischi sugli asset esteri e ridurrebbe i costi di transazione.
L’era Deng
Prima delle grandi riforme di Deng, il renminbi rispondeva a un regime di cambi fissi e non era convertibile. La progressiva integrazione della Cina nell’economia globale, negli anni 80, convinse la classe dirigente dell’opportunità di avere cambi più vicini al mercato. Fu adottato allora un doppio regime di cambi: un tasso “interno”, più basato sul mercato e da utilizzare solo per alcune operazioni commerciali; l’altro ufficiale e fisso, per le altre transazioni valutarie. Questo doppio regime consentì all’economia di aprirsi con più efficienza e le permise di esportare e importare di più, avvicinando i prezzi domestici a quelli globali. Come ricorda uno studio di Hsbc, non mancarono però distorsioni, con speculazioni e rendite di posizione a svantaggio delle imprese estere che volevano investire in Cina.
Si arriva così al 1994 e alla nuova ondata di riforme ispirate ancora una volta da Deng ed eseguite da Jiang Zemin: un altro passo verso l’«economia socialista di mercato», secondo la formula coniata dallo stesso Jiang. In questo conteso, nel 1994 il tasso ufficiale fisso fu abolito, lasciando in vigore solo quello interno, libero di fluttuare entro una banda dello 0,3% attorno a una parità fissata dalla Banca centrale. Il renminbi subì una svalutazione del 30% sul dollaro, più o meno la differenza che c’era tra il cambio interno e il cambio ufficiale abolito. Nel 1996 arrivò uno dei principali punti di svolta e la moneta venne resa convertibile per le operazioni commerciali.
Il peg sul dollaro
La crisi finanziaria che spazzò l’Asia nel 1997-98 richiese nuovi interventi per stabilizzare l’economia. A partire dalla metà del 1997, la Banca centrale si impegnò così a tenere stabile il cambio sul dollaro. Si trattava di un peg “di fatto” sulla valuta statunitense, difeso fino al 2005, anche quando le altre monete dell’area si deprezzavano. L’ancoraggio fu abbandonato il 21 luglio di quell’anno, con una rivalutazione del 2,1% e il passaggio a un cambio semi-flessibile. Il rapporto con il dollaro sarebbe stato stabilito sulla base di un paniere composto dalle principali valute e il cambio avrebbe fluttuato all’interno della banda d’oscillazione dello 0,3%, ampliata allo 0,5% a maggio del 2007, poi all’1% nel 2012 e infine al 2% nel 2014. Nel frattempo, la potenza commerciale della Cina esplodeva e Pechino entrava nella Wto (2001).
Valuta di riserva
La crisi finanziaria del 2008 spinse di nuovo a un peg di fatto, tra luglio di quell’anno e marzo del 2010. Di lì a breve, le riforme valutarie conobbero una nuova accelerazione. La liberalizzazione dei capitali e l’internazionalizzazione del renminbi vennero percepite come urgenti proprio per effetto della crisi, che dimostrò come restare ancorati al dollaro significasse subire gli squilibri dell’economia statunitense. Che, nel caso cinese hanno un impatto molto diretto ed evidente attraverso gli enormi volumi di titoli di Stato detenuti da Pechino, il primo creditore singolo degli Usa. Questa lezione, insieme alla consapevolezza di essere ormai una superpotenza globale, spinsero il regime a impegnarsi per fare del renminbi una valuta di riserva.
Attorno alla metà del 2010 fu lanciato il mercato offshore del renminbi: diventava cioè possibile vendere e comprare merci usando direttamente valuta cinese. Dopo la convertibilità per le transazioni commerciali, fu quello un nuovo passo decisivo verso l’internazionalizzazione. Non solo merci, ma sempre più anche servizi (e redditi) cominciarono a essere scambiati in renminbi, fino a raggiungere il 26% del valore dell’interscambio cinese. Una quota che potrebbe salire fino al 50% entro il 2020, secondo le stime di Hsbc.
Pechino non interviene ufficialmente sul tasso di cambio offshore con il dollaro, è il mercato a trasferire la sua politica valutaria attraverso gli arbitraggi con il cambio onshore. Le autorità cinesi sono inoltre in grado di calibrare domanda e offerta sul renminbi offshore intervenendo sui flussi di capitale. Se i flussi tra i mercati offshore e onshore erano inizialmente dominati dalle transazioni commerciali, ora sono sempre più influenzati dai flussi d’investimento. Oggi il renminbi è trattato offshore nei principali hub finanziari del mondo (come Hong Kong, Singapore e Londra), dove ormai sono accumulati 2mila miliardi di yuan .
La sfida della convertibilità
Si arriva infine alla svolta di martedì scorso. Che non è altro se non un nuovo punto di transizione. A fissare la rotta è stata ieri la stessa Banca centrale cinese: la riforma del meccanismo di formazione del tasso di cambio continuerà in modo da dare sempre più peso al mercato. Tra le prossime tappe, ha detto la Banca, ci sarà il passaggio a un singolo tasso di cambio sui mercati onshore e offshore.
Passaggi intrecciati e funzionali all’altra grande riforma, quella della piena convertibilità della moneta, con la liberalizzazione dei flussi di capitale. A marzo, il governatore della Banca centrale l’ha indicata come obiettivo da raggiungere entro l’anno. Questo non significherebbe comunque arrivare alla convertibilità al 100%. Secondo l’Fmi, il 70% dei suoi Stati membri con monete convertibili adotta qualche forma di controllo. Lo stesso potrebbe fare Pechino.
Anche qui, moltra strada è già stata fatta, soprattutto negli ultimi anni. Le operazioni di capitale, secondo la Banca centrale cinese, sono pienamente convertibili per l’85%. Oltre 60 banche centrali, sempre secondo l’Fmi, hanno già in portafoglio asset in renminbi, anche se il valore complessivo è ancora molto basso (100 miliardi di dollari).
A luglio, Pechino ha ampliato l’accesso al mercato obbligazionario per gli investitori istituzionali, che non hanno più bisogno di licenze per investire in obbligazioni interbancarie o sui mercati monetari. Gli operatori privati, invece, devono passare attraverso il Qualified foreign institutional investor programme o il suo cugino in renminbi e sottostare a un regime di quote. I mercati obbligazionari restano invece off limits per i singoli risparmiatori, che inoltre possono convertire renminbi in valuta estera (e viceversa) per un importo massimo di 50mila dollari l’anno. Restrizioni più blande limitano poi l’accesso al mercato azionario.
Per spingere le imprese cinesi a farsi largo nei mercati esteri, Pechino ha ridotto i vincoli sugli investimenti diretti in uscita. Quelli in ingresso restano regolamentati in molti settori, ma le procedure per ottenere il via libera sono state alleggerite. Restano tuttavia comparti dove non sono ammessi. Passi avanti sono stati fatti anche sulla liberalizzazione dei tassi d’interesse applicati dalle banche.
Il cammino insomma non sarà semplice: per evitare contraccolpi destabilizzanti Pechino deve affrontare nodi strutturali come l’indebitamento delle amministrazioni locali e il sistema bancario ombra. E le battute d’arresto non mancano: ne sono un esempio recente gli interventi del Governo per arginare il crollo dei mercati azionari nelle ultime settimane, tra stop alle vendite e contrattazioni sospese.
Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore 14/8/2015