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 2015  agosto 14 Venerdì calendario

LA BANCA CENTRALE CINESE RASSICURA I MERCATI

Al terzo giorno consecutivo di svalutazione dello yuan, sui mercati torna un tempo variabile dopo due sessioni di burrasca: le Borse asiatiche hanno cominciato a riprendersi e la forza del dollaro sulle valute regionali si è stemperata grazie al diffondersi della percezione di un probabile rinvio oltre settembre dell’avvio della manovra rialzista sui tassi americani da parte della Federal Reserve. Un raro briefing delle autorità monetarie cinesi ha contribuito a convincere molti investitori che il deprezzamento va inquadrato più in una riforma strutturale del sistema di fissazione del cambio che in una volontà di accelerare su una politica di svalutazione competitiva. Sullo sfondo, restano le incognite sul funzionamento del nuovo regime valutario e soprattutto quelle sul passo del rallentamento della crescita della Cina, al quale si sommano i venti di frenata dell’economia giapponese.
Ieri la banca centrale di Pechino ha fissato la parità centrale a 6,410 sul dollaro, l’1,1% sotto il fixing precedente, a sua volta inferiore dell’1,6% a quello di martedì (che era stato sotto dell’1,9% rispetto a lunedì).
Il differenziale con il cambio determinato dal trading onshore si è sensibilmente ridotto, dopo che già nelle battute finali delle contrattazioni di mercoledì erano emersi segnali di intervento pubblico per frenare la discesa dello yuan. Un intervento in apparente contraddizione con la promessa ufficiale di lasciare sostanzialmente alle forze di mercato la determinazione del cambio.
Ieri il vicegovernatore Yi Gang ha spiegato che è ormai finita l’era degli interventi “regolari”, anche se la banca centrale si riserva di agire per evitare eccessi di volatilità. Yi ha anche negato le voci secondo cui il governo intenderebbe svalutare di circa il 10% per rilanciare l’economia ed in particolare le esportazioni, ed è tornato a evidenziare che i fondamentali non giustificano un sostenuto trend ribassista per lo yuan. Altre banche e broker ieri hanno comunque rivisto al ribasso le loro previsioni sul livello della moneta cinese in base al “regime change” introdotto questa settimana. BankAmerica Merrill Lynch Global Research, ad esempio, intravede uno yuan a 6,5 sul dollaro alla fine di quest’anno e a 6,9 a fine 2016. Oxford Economics ha simulato le conseguenze di un deprezzamento del 10% dello yuan, con risultati in direzione di una modesta spinta al Pil cinese, effetti negativi sui concorrenti specialmente asiatici e un export di deflazione in altri Paesi, compresi quelli europei.
Con la diminuita avversione al rischio da parte degli investitori, la Borsa di Tokyo ha recuperato l’1% nel quadro di una ripresa generale della piazze asiatiche manifestatasi anche a Shanghai (+1,76%) e Hong Kong (+0,4%). Non è stata data molta importanza al calo del 7,9% degli ordini “core” di macchinari in Giappone a luglio, che pure segnala la tendenza al rallentamento degli investimenti di capitale delle imprese.
Al pari della Cina, la terza economia mondiale vede una domanda interna inferiore alle attese: secondo la maggior parte degli analisti, lunedì prossimo sarà annunciato il ritorno al segno negativo nel secondo trimestre del Pil giapponese, che Yoshiki Shinke, capo economista al Dai-ichi Life Research Institute (che di solito ci azzecca) vede in contrazione di ben il 3,5% annualizzato. Se la Cina frena più del previsto, insomma, anche l’Abenomics batte in testa, tanto che uno dei più autorevoli consiglieri del premier Abe, Etsuro Honda, già invoca una nuova manovra di stimolo da 3mila miliardi di yen (circa 24 miliardi di dollari). Se poi il deprezzamento dello yuan dovesse esportare deflazione (anche attraverso un riflesso indiretto deprimente sui corsi delle materie prime), anche la banca centrale giapponese potrebbe essere costretta a introdurre ulteriori stimoli monetari, per evitare il rischio e l’umiliazione del ritorno a un indice dei prezzi negativo.
Stefano Carrer, Il Sole 24 Ore 14/8/2015