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 2015  agosto 14 Venerdì calendario

BONACELLI: “NON CI CREDO MA HO LE CORNA NEL CASSETTO”

[Intervista a Paolo Bonacelli] –
Se chiedete a un attore se gli attori sono superstiziosi lui, primo, vi dirà di sì; secondo, vi dirà che lui però non è superstizioso; terzo, farà le corna. Ma più per dovere, per fedeltà al passato, che per vera convinzione. Al ricordo di alcuni celebri aneddoti, come Peppino Patroni Griffi che al ristorante costringeva a mangiare da solo il tredicesimo attore della sua compagnia, Paolo Bonacelli sorride e conferma, ma aggiunge che a teatro anche la scaramanzia non è più quella di un tempo. “Una volta in parecchi si vergognavano di esserlo, e negavano, mentre i giovani di oggi non lo sono più sul serio.
C’è ancora qualche vecchia consuetudine, per esempio il copione che cade per terra durante le prove non è un buon segno, e allora bisogna sbatterlo tre volte sul palcoscenico. Oppure la paura del viola, meglio non indossare nulla di quel colore. Ma oggi sopravvivono più come tradizioni, che come autentiche superstizioni”.
Chi è stato il più superstizioso tra i grandi colleghi con cui hai lavorato?
Gassman era piuttosto superstizioso, e da mattatore qual era non ne faceva mistero, anzi, lo enfatizzava. Per nessun motivo voleva debuttare di venerdì. E poi aveva una sincera avversione per quella tragedia di Shakespeare che nessuno vuole nominare.
Infatti non la nominiamo anche noi. Gassman aveva avuto una brutta esperienza?
Sì, l’aveva interpretata due volte, la prima alternandosi nel ruolo del protagonista con Salvo Randone. Randone ebbe successo, lui meno, e proprio per questo la volle rimettere in scena da solo. Ma anche in quel caso non andò tanto bene.
Lei si considera immune alle superstizioni?
Fondamentalmente no. Diciamo che sono per la scaramanzia bianca.
Ovvero?
Non ho nessuna fisima o paura che qualcosa porti male. Però se vado a vedere nella mia cassetta dei trucchi ci sono parecchi ammennicoli. Un portachiavi con le corna, un altro con dei pupazzetti… piccoli portafortuna che mi sono stati regalati e di cui non mi sono mai voluto separare. Sono d’accordo con Eduardo: essere superstiziosi è sintomo di ignoranza, ma esserlo non porta male.
Con Pasolini come andò? Salò o le 120 giornate di Sodoma ha fama di essere un’opera maledetta.
Lo so, tutti hanno questa impressione in parte giustificata dal fatto che Salò e Petrolio sono davvero le sue opere testamento. Ma in realtà su quel set c’era un’atmosfera molto piacevole, Pasolini era una persona di estrema gentilezza. Per me girare Salò fu un’avventura divertente; nel luogo dove si preparavano le scenografie avevo scovato dei contenitori di ottima cioccolata di cui mi facevo delle gran scorpacciate. È per questo che poi, sullo schermo, sono così convincente, anche se sembra che stia mangiando un’altra cosa!
Lei calca il palcoscenico da 40 anni. Scaramanzia a parte, come è cambiato il rapporto tra attori e teatro?
In quasi tutti gli altri i paesi europei, l’attore non esiste se non ha fatto almeno tre anni di scuola riconosciuta, o almeno tre anni di apprendistato. Da noi non è così. In Italia la televisione ha rivoluzionato le gerarchie; chiunque passa per strada e fa una posa di un giorno in una fiction viene iscritto il giorno dopo all’ufficio di collocamento in qualità di attore. Le conseguenze di questo sistema è inutile che gliele spieghi. L’interpretazione passa in secondo piano, quello che conta è apparire, mostrarsi. Ma in teatro l’interpretazione è tutto.
Anche il carisma del prim’attore sembra in via di estinzione. Perché i Gassman, i Romolo Valli, i Carmelo Bene stentano a trovare degli eredi?
I talenti ci sono, ma la mia impressione è che tutto si sia fatto più transitorio. Una volta si faceva il teatro d’inverno, il cinema d’estate e basta. Adesso c’è un grande vortice permanente, tutto si frantuma e si brucia rapidamente. Magari un attore si afferma per un anno o due, poi sparisce nel nulla, mentre il carisma ha bisogno di durata. È il sistema che non ne ha più bisogno.
Eppure il teatro è sempre vissuto di mostri sacri.
Mostri sacri si diventa. Qualunque talento per crescere ha bisogno delle basi, e da noi molto spesso le basi non ci sono. E poi sempre più di rado il teatro è il punto di partenza di un giovane attore, e sempre più spesso è l’ultimo approdo di chi magari arriva dal nulla. Nel cinema e nelle fiction televisive da noi c’è anche il doppiaggio: l’ultimo dei cani può anche dire dei numeri al posto delle battute, tanto poi verrà doppiato da uno bravo ma sconosciuto.
Lei ha appena ricevuto un premio alla carriera a Ferrandina, il piccolo paese della Lucania dove ha girato Cristo si è fermato a Eboli con Gian Maria Volonté e Francesco Rosi. Con loro nessuna scaramanzia?
Assolutamente no. Volonté era un uomo molto razionale e Rosi un professionista straordinario.
E del principe della scaramanzia, Eduardo, le è mai capitato di interpretare qualcosa?
No, stava per accadere una volta, ma poi l’occasione andò perduta e mi dispiacque molto perché le commedie di Eduardo sono magnifiche, con dei personaggi straordinari anche nei caratteri minori.
Quindi, se si ripresentasse l’occasione di interpretare Eduardo, non si tirerebbe indietro.
Al contrario. Mi piacerebbe molto, ma ormai mi sembra molto difficile.
Mai dire mai. Facciamo gli scongiuri?
Facciamoli.
Nanni Delbecchi, il Fatto Quotidiano 14/8/2015