varie, 14 agosto 2015
APPUNTI SUL CAMPIONATO PER IL FOGLIO DEI FOGLI
GUIDO DE CAROLIS, CORRIERE DELLA SERA 11/8 –
Si cambia. E si spende, tanto. «Spesso però commettendo un errore: si assecondano troppo gli allenatori che hanno esigenze sulla quotidianità e non sempre queste combaciano con quelle del club».
Si rifonda, si ricostruisce o più semplicemente c’è chi prova solo a cambiare pelle. In questo mercato gli investimenti delle big sono stati pesanti. Milioni hanno messo sul piatto Milan e Inter, senza timore di rinnegare le scelte della passata stagione e puntare su volti nuovi. Bacca, Luiz Adriano, Romagnoli per i rossoneri, Jovetic, Kondogbia Miranda, Murillo i nerazzurri, solo per citarne alcuni. Pure la Juve ha dovuto aprire la borsa per sostituire Pirlo, Tevez e Vidal, con Khedira, Dybala e Manzdukic e ancora dà la caccia a un trequartista. La Roma ha incassato per Romagnoli e Bertolacci, ma pagato per Dzeko, Salah e Iago Falque e ancora cerca un terzino. Il Napoli ha confermato i migliori, giocandosi le scommesse Allan e Valdifiori e richiamando in porta Reina. Si girano le pedine e variano i moduli: l’obiettivo è tornare in alto, se a vincere proprio non si riesce.
Pierpaolo Marino, da pochi giorni ex direttore sportivo dell’Atalanta, ha un’idea chiara. «Nella Juve vedo programmazione. Hanno anticipato la rifondazione, perché il rischio era di finire come l’Inter del Triplete e di far morire la squadra. Intelligente non ricostruire a fine corsa, ma quado sei al top. Se Dybala e Mandzukic fanno i gol di Tevez avranno avuto ragione Marotta e Allegri. E sono convinto che finirà così».
Non tutti però hanno seguito la stessa linea e soprattutto i top player alla Di Maria, pagato 65 milioni dal Psg, in Italia non vengono più. «Solo la Juve li può convincere. Cavani a Torino sarebbe andato. Ma oggi i calciatori di altissima fascia non scelgono squadre senza continuità in Champions League».
Quest’anno però le spese sono state sostenute. «È dovuto alla tanta liquidità arrivata con il nuovo contratto televisivo: il 30 per cento in più. Tutti si rinforzano per entrare in Champions, perché non farlo per un club di fascia alta ha lo stesso devastante impatto economico di una retrocessione per una piccola squadra. La Juve resta davanti, il Milan se completa il mercato può arrivare secondo, il Napoli è da terzo posto, all’Inter manca qualcosa».
L’esperto direttore sportivo del Bologna, Pantaleo Corvino, è convinto però che non ci sia un’adeguata conoscenza dei giocatori. «Come può un allenatore impegnato tutti i giorni sul campo valutare un calciatore di un altro campionato? I top player li conoscono tutti. Anche mio nipote alla Playstation è in grado di comprare Di Maria, Ronaldo, Messi. Ma gli altri li devi andare a scovare, seguire, vedere. Serve una rete e continuità. In Italia si va verso il modello anglosassone, quando lì hanno costruito prendendo spunto da noi». Marino è ancora più netto: «I nostri tecnici non sono aggiornati sullo stato di un giocatore, sul periodo di carriera che attraversa. Agli allenatori italiani mancano staff adeguati e si vanno a prendere magari scarti di grandi squadre in parabola discendente. Il Bayern può mai svendere un buon giocatore? Se li vuoi i grandi li devi pagare».
L’ex ds di Perugia, Torino e Bologna, Fabrizio Salvatori, aggiunge: «Da noi vengono giocatori senza un rendimento continuo. Salah magari fa bene per venti partite, ma non basta per vincere. La differenza tra un campione e un buon calciatore è il rendimento fisso ad alto livello. In Europa le differenze poi si notano. Vedrete, vincerà ancora la Juve. Le altre all’inizio terranno per un po’ il passo, poi non ce la faranno a starle dietro».
Anche Corvino pronostica «una Juve favorita ma con solo un’incollatura sulla Roma. Poi c’è il Napoli che mi intriga, una sfida pericolosa ma bella. Sono curioso di vederlo con il nuovo modulo, questo 4-3-1-2 con gli stessi interpreti della passata stagione piazzati in zone diverse. Se Sarri riuscirà a esaltarli può venire fuori uno spettacolo. Hamsik mezzala è una bella sfida».
Guido De Carolis
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MATTEO PINCI, LA REPUBBLICA 11/8 –
Un mercato così farebbe felice pure il premier Renzi, convinto che l’austerity freni la crescita. Juve e Inter, Milan e Roma non stanno più a guardare le mosse delle big d’Europa col palmo aperto ad aspettare le briciole. Oggi il supermarket della serie A è tornato a viaggiare su cifre record, al punto che i 25 milioni di euro spesi dal Milan per il ventenne Romagnoli (pagabili in 5 anni e con percentuale in favore della Roma su una futura rivendita che superi la cifra investita) quasi non fanno impressione. Semmai costringono ad aggiornare il conto: quando stamane il difensore metterà la firma sul contratto con i rossoneri, la spesa estiva delle quattro squadre che hanno investito di più raggiungerà la cifra record di 329 milioni di euro. Esattamente quanto l’intera serie A aveva sborsato 5 anni fa. Affari tanto succosi in Italia non si vedevano addirittura dall’inizio del secolo. Per trovare presidenti più spendaccioni di quelli di oggi bisogna tornare al 2001, quando Juve, Lazio, Milan e Inter tirarono fuori 545 milioni di euro, più di cento a testa: erano giorni in cui veniva valutato 135 complessivi il trio Nedved, Thuram e Buffon, 48 il “bidone” Mendieta, 41 Inzaghi e 29 Toldo, anche se ancora si ragionava in lire e gli importi, raddoppiati o quasi, facevano ancora più sensazione. Magari non saremo al livello dei 55 milioni di euro spesi da Cragnotti nel 2000 per comprare Crespo, ma in quell’elenco di numeri esagerati i 40 che Monaco e Palermo incasseranno dalle nostre grandi per le cessioni di Kondogbia e Dybala (bonus compresi) non sfigurano, anzi. E pensare che soltanto un anno fa Agnelli e Pallotta, Thohir e Berlusconi, chiusero la sessione di contrattazioni di agosto investendo 132 milioni in tutto, meno della metà di quanto non abbiano fatto oggi. Negli ultimi dodici mesi non sono improvvisamente raddoppiate le entrate dei club di serie A: è cambiata però la filosofia con cui hanno deciso di approcciare al mercato per non restare indietro rispetto alla concorrenza continentale.
Come sostenere un’estate tanto costosa? L’Inter, come la Roma, scommette sulla Champions e si affida a prestiti con riscatto obbligato, più o meno dei “pagherò”: Mancini ha convinto Thohir ad investire, spostando sul bilancio del prossimo anno l’onere delle spese sostenute. Fin qui 87 milioni, ma l’evoluzione delle trattative per Perisic e Melo, ormai in dirittura d’arrivo, potrebbe aggiungerne altri 20 al conto. In fondo almeno per i prossimi 12 mesi, causa un ruolo da spettatrice nelle coppe europee, i bilanci del club nerazzurro non finiranno sul tavolo dell’Uefa, che l’ha già sanzionata (al pari dei giallorossi) la scorsa primavera. Intanto il Milan l’ha agganciata quanto a soldi spesi, ma entrambe guardano dal basso la Juventus, primatista con 91 milioni già spesi, resi sostenibili dal flusso di oltre 90 milioni generato dal raggiungimento della finale di Champions. I bianconeri, come pure Galliani, almeno per quest’anno preferiscono diluire i pagamenti su più stagioni, mettendo però subito a bilancio l’importo totale: niente prestiti e capriole contabili, insomma. Senza dimenticare che a Torino aspettano ancora un pezzo grosso, Draxler, Gundogan o Goetze che sia. Abbastanza per dare l’idea dell’inversione di rotta dell’élite del calcio italiano, che dopo anni di austerity ha ripreso a svenarsi.
Matteo Pinci
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GUIDO DE CAROLIS, CORRIERE DELLA SERA 14/8 –
L’Inter prende tempo. Non è stato un bel precampionato: sei sconfitte su dieci uscite, appena tre vittorie e un pareggino. Inutile però guardare i numeri se poi in fondo mancano gli attori. È un po’ come pretendere di avere il teatro pieno mentre si sta montando ancora la scenografia. L’Inter di oggi è una carta d’identità senza foto, né il timbro di Roberto Mancini. L’allenatore aspetta dal mercato i pezzi per completare il puzzle: un attaccante, un centrocampista, un terzino. Tra dieci giorni però si parte. Quella di domenica ad Ancona contro l’Aek Atene sarà l’ultima prova generale, prima dell’esordio in campionato a San Siro con l’Atalanta. Mancini ostenta tranquillità, ma oggi i nerazzurri hanno solo uno schema su cui poggiare qualche sicurezza: il 4-3-1-2. Gli altri esperimenti non hanno convinto. Inapplicabili per mancanza di interpreti e condizione.
Si ragiona sui moduli, ma in fondo sono sempre gli uomini a far svoltare, in un senso o nell’altro, le stagioni. L’Inter è ripartita con alcune scommesse tattiche e altre sui giocatori. La linea di difesa ha cambiato tre interpreti su quattro e cerca anche una nuova proposta sulla fascia sinistra. I due centrali Murillo e Miranda sono profili con valori già disegnati, però faticano se non adeguatamente protetti dal centrocampo e sulle corsie esterne, oggi autostrade senza pedaggi. La proposta di Kovacic regista basso per ora non funziona, Kondogbia è un rullo potentissimo ma ancora imballato, Jovetic sta cercando di riavviare il motore della condizione, Icardi è un bomber senza rifornimenti. Mancano gioco e gol, segnati.
Incognite da chiarire, ma non di solo mercato può vivere la speranza. Può confortare il confronto con l’estate passata quando l’Inter veniva indicata come l’anti-Juve per poi non centrare a fine anno neppure la qualificazione in Europa.
Il bilancio d’agosto è un torrente secco. Nelle valutazioni però entrano anche le impostazioni sul futuro. Con ogni evidenza l’Inter non programma un avvio veloce e come ha suggerito Mancini «serviranno 4-5 partite per trovare la forma migliore». In questo mese si è lavorato su carichi pesanti, adottando una strategia differente dall’estate scorsa e la forma fisica amplifica le differenze, come accaduto nel Trofeo Tim tra l’attaccante del Milan Bacca e i difensori nerazzurri.
Non basta però il ritardo di brillantezza ad archiviare le paure. Il mercato va completato e non c’è dubbio. Deve arrivare un giocatore d’attacco, che poi sia Perisic o un altro lo si vedrà a breve, in fondo mancano una quindicina di giorni allo stop delle trattative. Con il Wolfsburg c’è accordo sul prezzo, circa 18 milioni, non sul pagamento. Finché i tedeschi non chiudono con il Manchester City la cessione di De Bruyne non possono accettare la cambiale dell’Inter da incassare a giugno 2016.
Le legittime giustificazioni cui si appellano società e staff tecnico non riescono ad abbassare i livelli d’ansia della tifoseria, preoccupata di andare incontro a un’altra stagione di transizione. Presto per lasciar spazio agli assilli, ma non sono tanto i ripetuti inciampi nelle amichevoli a disturbare, quanto l’assenza di gioco, gol e risultati.
Il dubbio è se in fondo possano bastare un terzino e un attaccante a far quadrare il conto o se il precario equilibrio non vada piuttosto fissato ragionando su altre formule. L’Inter ha tre pezzi da acquistare e tanto da smaltire. Ma il refrain «prima si vende poi si compra» rischia di far arrivare lunghi al primo atto. E steccare non è più ammesso.
Guido De Carolis
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ALESSANDRO BOCCI, CORRIERE DELLA SERA 12/8 –
Dal Barcellona al Chelsea, dallo stadio Franchi a Stamford Bridge, il regno dei Blues, un’unica lunga emozione. La Fiorentina è rinata in tre giorni dopo un’estate di tormenti. Il tradimento di Neto, il traumatico divorzio da Montella, la fuga rumorosa di Salah. Colpi bassi per i tifosi viola a cui va aggiunto il beffardo rifiuto di un giovane centrocampista serbo, Milinkovic-Savic, doppio cognome e doppia personalità, che ha preferito la Lazio dopo un blitz grottesco dentro lo stadio.
Tutto, se non cancellato, almeno messo alle spalle grazie a due vittorie ravvicinate che non danno punti in classifica ma servono per il prestigio e aiutano il morale in vista dell’inizio di stagione: 2-1 al Barça e 1-0 al Chelsea. La Fiorentina non è morta e come dice il patron Andrea Della Valle non fa passi indietro. Ha cambiato l’allenatore, tagliato drasticamente il monte ingaggi, scelto di puntare sui giovani di qualità, ma vuole rimanere in alto in classifica. Quanto, è difficile dirlo ora con il mercato aperto. Di sicuro, rispetto ai tre quarti posti consecutivi conquistati da Montella, la strada è in salita perché il livello della concorrenza è cresciuto e le milanesi sono più forti dell’anno scorso.
Ma pian piano a Firenze sta tornando fiducia. Trentamila allo stadio contro il Barcellona «sono una risposta allo scetticismo», ha ruggito Andrea Della Valle e gli abbonamenti sono saliti all’improvviso, 16 mila alla fine del periodo di prelazione, con l’obiettivo di arrivare in fretta a 20. «Ora però non bisogna illudersi», il messaggio chiaro e forte di Paulo Sousa che in un mese ha conquistato la città, prima che sul campo con le parole. Il portoghese piace perché ha saputo istaurare un filo diretto con i tifosi e vive tutto con grande passione, allontanando così il suo passato juventino. Il suo calcio pratico con la difesa alta, il pressing asfissiante per recuperare palla e le ripartenze lampo, ha mandato in soffitta il tiki-taka montelliano ed è stato ben recepito dalla piazza.
«Ma servono rinforzi» affinché la dolce estate non rimanga un sogno effimero. Il prossimo, suggerito direttamente dall’allenatore, sarà Nikola Kalinic, centravanti croato che sta per sbarcare dal Dnipro per 6 milioni. «L’attaccante è la priorità», la conferma di Pradè alla presentazione di Astori. Ma non finirà qui. Nel mirino restano un difensore, un centrocampista e un attaccante esterno. «Ma senza fretta», ha assicurato sornione il d.s., convinto che negli ultimi giorni di questo convulso mercato i prezzi caleranno e le occasioni per i viola si moltiplicheranno.
La Fiorentina ha perso tempo ed energie a litigare con Montella e a inseguire vanamente Salah. Ora promette di recuperare. «Sarà una squadra giovane e affamata», ha spiegato il presidente Cognigni. Tra undici giorni c’è il Milan e allora, solo allora, capiremo sin dove la Viola potrà spingere il suo orizzonte. «Vincere con Barcellona e Chelsea ci ha dato la consapevolezza di poter giocare alla pari con le migliori d’Europa», l’entusiasmo contagioso di Giuseppe Rossi. Pepito sta tornando. E con lui sarebbe più facile riprendere a volare.
Alessandro Bocci
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ARIANNA RAVELLI, CORRIERE DELLA SERA 11/8 –
Come ai tempi belli, se si guarda alla voce investimenti. E ora vengono i problemi: nel senso che, come ai tempi belli, dovrebbero arrivare i risultati. Conti alla mano, sono 83 i milioni di euro che il Milan (attingendo dalla borsa di Fininvest perché il passaggio di denaro e quote con il magnate Bee Taechaubol avverrà a settembre) ha fin qui speso sul mercato. Rifatto completamente l’attacco (con 30 milioni per Bacca e 8 per Luiz Adriano), puntellato il centrocampo (20 milioni per Bertolacci), gli ultimi 25, com’è noto, sono serviti per Alessio Romagnoli (da pagare in cinque anni, il Milan verserà alla Roma una percentuale in caso di rivendita a una cifra superiore, ma precisa che non sono stati previsti bonus), il difensore centrale mancino che Sinisa Mihajlovic aveva individuato come suo unico obiettivo e che già oggi pomeriggio potrebbe essere a Milanello. Perché non c’è più molto tempo per farsi trovare pronti: dopo l’ennesimo rodaggio domani sera al Trofeo Tim (miniderby con l’Inter e poi 45’ col Sassuolo), il 17 agosto c’è la prima partita da non sbagliare, la sfida di Coppa Italia contro il Perugia.
È vero che per il mercato c’è più tempo, ma, mentre per l’arrivo di Romagnoli si nutrivano ragionevoli certezze, ora ogni innesto è poco più che un’ipotesi: il sogno resta quello di Zlatan Ibrahimovic, ma il Psg non è intenzionato a lasciarlo partire e l’unica possibilità è che il giocatore (con il suo manager Mino Raiola, ça va sans dire) forzi una rottura con il club (ma c’è sempre un contratto in corso da 14-15 milioni). L’altra pedina il Milan la vorrebbe inserire a centrocampo: il nome che si fa è sempre quello di Witsel, però i rossoneri non hanno intenzione di spendere i 30-35 milioni richiesti. La formula (per il belga, ma anche per chiunque altro) potrebbe essere un prestito con obbligo di riscatto, da cercare di realizzare sempre negli ultimi giorni, quando qualche grande club potrebbe dover sfoltire la rosa. Perde invece di consistenza la pista Soriano, altro giocatore rivalutato alla Samp dalla cura Mihajlovic. La linea in via Aldo Rossi è chiara: ogni ulteriore arrivo dovrà rappresentare un reale salto di qualità, altrimenti il Milan è fatto, si resta con questa rosa.
Una rosa che comunque si è rinforzata. E, ora che è stato accontentato in (quasi) tutto, Mihajlovic è nella scomoda posizione di non poter più sbagliare: il Milan si aspetta un posto in Champions. È evidente che la pressione sull’allenatore — che è riuscito nell’impresa di convincere Berlusconi a spendere una cifra consistente per un difensore — è destinata a crescere. Sul conto di Inzaghi, per dire, è finita anche l’insistenza per Cerci, l’anno scorso deludente (ora avrà un’altra chance: dopo l’infortunio di Niang, operato ieri con successo al piede destro, l’ex Toro resterà, mentre l’unico rossonero in uscita è Paletta). Insomma, Mihajlovic ora deve far vedere qualcosa di sé e del Milan che ha in testa: possesso palla, rapide verticalizzazioni, scambi di posizione e inserimenti in modo da non dare punti di riferimenti agli avversari, un’intesa crescente della coppia d’attacco e una migliore tenuta difensiva. Ma soprattutto si deve vedere la personalità, la specialità di casa Mihajlovic, che è un po’ mancata a Monaco, e se con il Bayern ci può stare, con il Tottenham molto meno. Anche per questo, Sinisa ha fortemente voluto Romagnoli nonostante il prezzo (sul tema aveva dichiarato: «Mi piacciono le fragole ma non le devo pagare come ostriche» e in un ristorante milanese gli hanno fatto trovare l’inconsueta abbinata), perché convinto che abbia la testa giusta per reggere l’esame San Siro. Il suo c.t. nell’under 21, Gigi Di Biagio, lo sta già preparando: «Ho detto ad Alessio che a San Siro devi essere educato, bello, rispettoso e devi correre bene. Puoi far bene 80’ ma ti giudicheranno in maniera molto severa per due stop sbagliati». Dopo 83 milioni spesi, vale per tutto il Milan.
Arianna Ravelli
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MARIO SCONCERTI, CORRIERE DELLA SERA 10/8 –
P ogba sta guidando un piccolo gruppo di nuovi numeri 10. Lo è chiaramente Jovetic, lo è Salah per definizione allargata, può diventarlo Bernardeschi, è tornato perfino Cassano. Forse chi lo è meno di tutti è proprio Pogba, molto più mezzala a tutto campo. Pogba sta continuando a crescere, il suo peso sulla partita è sempre più alto, si vede da quanto incide e da come gli avversari lo soffrono. Ma può fare di più. Pogba è un giocatore tranquillo, credo non si renda conto fino in fondo di quanto potrebbe fare, di tutte le doti che ha. È pulito nel gioco, è lineare, rispettoso. Gli manca un po’ di disagio dentro, quel piccolo tratto selvatico che rende un fuoriclasse sempre insoddisfatto. È anche questo che non lo fa un numero 10, ma tutto il resto. Jovetic è stato un acquisto sottovalutato. In realtà, con Bacca, è il miglior attaccante arrivato dal mercato. Gli infortuni lo hanno reso fino a ora un mezzo grande giocatore, ma ha tanta classe, quanta negli ultimi trenta metri forse nessuno ha. Gli slavi, dal nord al sud, dalla Croazia alla Serbia, sono sempre buoni giocatori, raramente diventano ottimi. È come si accontentassero un attimo prima. Jovetic è sul quell’orlo, anche a lui manca qualcosa, forse un po’ di cattiveria, forse gioca un po’ frenato dalla paura di farsi ancora male. Ma può essere uno dei pochi a fare quell’ultimo scalino. Salah ha doti evidenti, il suo piccolo problema è la velocità: ne ha troppa. La velocità complica il controllo del pallone e costringe a pensare in fretta. Salah non ha ancora del tutto quel controllo. Ma siamo a livelli molto alti, alla fine del problema, non all’inizio. Bernardeschi ha 21 anni, sta un po’ largo in questo elenco. È il più attaccante di tutti, ha i tratti di un Boksic con meno forza e più tecnica. È un ragazzo diverso, con caratteristiche che sono più nordeuropee che italiane, con un po’ della nostra vecchia magia. Se ha fortuna tra sei mesi è in Nazionale. Aggiungerei Bertolacci perché di classe ne ha molta. Non è un regista, è un talento che va fatto giocare libero perché ha comunque spontaneo il senso dell’ordine. Resta spesso sottotraccia, come le vere mezzali, lega la squadra in modo leggero ma continuo. È un Montolivo veloce, con meno forza, ma più idee finali. Non chiedetegli quello che non sa fare.
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GUIDO DE CAROLIS, CORRIERE DELLA SERA 10/8 –
Due campioni quasi certi e un predestinato. Dopo un precampionato al ribasso, Inter e Roma hanno alzato i giri con i successi su Athletic Bilbao e Valencia. Fin qui non ha sofferto la Fiorentina contro cui si sono squagliate Barcellona e Chelsea. Le vittorie però non nascono per caso, i gol ancor meno. Inter, Roma e Fiorentina hanno (forse) trovato i loro uomini chiave. In modi diversi, ma Jovetic, Salah e Bernardeschi possono far svoltare la stagione.
I nerazzurri si attendevano da Jovetic quel che ha cominciato a far intravedere nell’amichevole di Parma contro il Bilbao. Il montenegrino si è fatto apprezzare per un’ora e nello scacchiere di Mancini è sicuramente il pezzo più pregiato. Può giocare al fianco di Icardi, da esterno alto, da trequartista. Una chiave d’attacco per aprire a tante soluzioni. La condizione va migliorata e forse ci vorrà un po’ di pazienza supplementare anche per i due anni spesi a singhiozzo con il Manchester City. Jovetic però è quel giocatore di tecnica e fantasia, di movimento e finalizzazione, inseguito da Mancini. Due gol nelle ultime due uscite, ma non solo. Pare abbia già compreso come muoversi negli schemi nerazzurri. Se i dubbi sull’integrità fisica finora non hanno trovato margine, restano da sciogliere quelli sulla continuità. Uno Jovetic che gira regala all’Inter un carnet vario, anche su palle inattive, da cui sempre più spesso nascono i gol in serie A.
Un compito diverso attende Salah alla Roma. L’egiziano è un contropiedista, ma pure un attaccante puro (così almeno giocava nel Basilea), ma anche un esterno alto. Garcia lo ha portato in giallorosso per la sua duttilità. All’esordio con il Valencia ha spinto in rete da un metro il doppio palo di Gervinho, ma è pure entrato nell’azione del raddoppio. L’acquisto di Salah è stato ragionato. La Roma l’anno passato ha chiuso con l’ottavo attacco, arrivando comunque seconda. Chiara la volontà di incrementare il potenziale offensivo per colmare il gap con la Juventus. Con il suo arrivo Garcia può variare il tipo d’attacco, modellare in corsa la Roma su più moduli. Salah è tante facce in una: jolly da giocare come incursore per le imbeccate di Totti, suggeritore, terminale d’attacco. Con la nazionale egiziana ha una media di più di un gol ogni due gare, nel Chelsea non si è mai fatto notare, a Firenze è esploso. Forse l’unica incognita legata a Salah è se saprà ripetere gli straordinari mesi in maglia viola.
Proprio la Fiorentina aspetta quest’anno la consacrazione di Bernardeschi. A 21 anni ha scelto una maglia pesante, la numero 10. A Firenze ancor di più: fu di Antognoni e Baggio. Segno di personalità per Bernardeschi che ha numeri (dei due gol al Barcellona, il secondo è stato un colpo di biliardo) e un talento immenso. La Fiorentina aspetta il ritorno di Pepito Rossi, ma intanto coltiva una grande speranza.
Guido De Carolis
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GUGLIELMO BUCCHERI, LA STAMPA 13/8 –
C’è un calcio italiano che gioca all’attacco e un altro che fa fatica a correre in contropiede. Accade, così, che i numeri dell’estate diano fiato a quanti raccontano di un campionato più ricco perché i club (i grandi) hanno deciso di investire senza freno a mano tirato: di quasi 250 milioni di euro è, per ora, la somma versate dalle nostre società al capitolo degli acquisti dall’estero, mai tanto alta dal 2008 ad oggi. Ma, sullo sfondo di cifre da capogiro, o quasi, c’è un pianeta, quello degli sponsor, che gira con meno velocità.
L’eccezione delle tre big
Come mai un terzo della serie A non ha un marchio commerciale sulla propria maglia? Roma, Lazio, Genoa, Sampdoria, Fiorentina, Palermo e Bologna sono senza sponsor principale, ma anche le squadre che ce l’hanno non hanno la forza di portare il nostro pallone in scia delle realtà europee più prestigiose. La Juve è l’unica società che fa parte della classifica più nobile del continente, al nono posto di una graduatoria che misura il valore della maglia, frutto della somma fra sponsor commerciale e tecnico. In vetta c’è il Manchester United (ha da poco firmato un accordo con Adidas dal peso di 940 milioni di euro per i prossimi dieci anni, mentre dal partner commerciale ne incasserà altri 70 a stagione), poi il Chelsea, il Real Madrid, il Barcellona, il Liverpool, il Bayern Monaco, l’Arsenal, il Paris Saint Germain e, dopo la Juve, il Manchester City. Verdetto? All’Italia - con Milan e Inter subito dietro - rimane una piccola fetta, piccolissima, di un universo che aumenta il nostro distacco della concorrenza.
Attesa dell’offerta giusta
L’affondo sul mercato non è lo stesso sul campo commerciale. I dati lo dicono, ma per avere un quadro di insieme più approfondito occorre andare oltre alle semplici cifre. Avere lo sponsor sulla maglia, ormai, è diventato un veicolo sociale di dimensione inimmaginabile. Per questo, non di rado si assiste a «rifiuti» da parte di club nei confronti dell’offerta (e non solo economica) non esatta: preservare, per qualche tempo, il proprio spazio sulla divisa ufficiale è anche una strategia, in attesa di proposte migliori o irrinunciabili. Non tutte le società ragionano così, ma molte lo fanno e, per scelta, rimangono in cerca di uno sponsor commerciale che soddisfi la proprietà. È il caso di Roma, Lazio e Fiorentina, ad esempio. Tornando, invece, all’analisi dei numeri, l’Italia si è rimessa in moto, ma ad una velocità ridotta rispetto ad Inghilterra, Germania, Spagna ed anche Francia: nella classifica aggiornata ad oggi degli incassi dal solo nome commerciale, la serie A insegue la Ligue 1 francese con un distacco di quasi venti milioni.
Premier lontanissima
Cifre e classifiche. Grafici e conti. La Premier è lontana perché lontano è il loro modo di vivere il calcio: là gli sponsor sono la logica conseguenza di un mondo fatto di strutture nuove e commercializzazione planetaria. Lontana è anche la Bundesliga, un allungo nato, soprattutto, negli ultimi dieci anni, dal dopo Mondiale 2006. Distanti appaiono anche la Liga spagnola e, come detto, la realtà francese: quest’ultima correrà a mille all’ora adesso che sta per brindare all’edizione degli Europei del prossimo giugno. Qualcosa in Italia si è mosso: c’è da scommettere che un mercato stile vecchi tempi farà drizzare le antenne anche alle aziende più importanti oltreconfine. Intanto, accontentiamoci dei primi, significativi, segnali di rinnovamento culturale. Poco, ma meglio del niente delle ultime stagioni.
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GUGLIELMO BUCCHERI, LA STAMPA 12/8 –
Un’invasione. A tratti utile, a volte (forse) un po’ meno. La lista della spesa all’estero dei nostri club si allunga e lo fa con solo tre eccezioni, Torino, Chievo e Sassuolo che si sono, per ora, tappate gli occhi oltreconfine. Un’invasione, dicevamo. Utile perché il calcio italiano sta cercando di darsi una scossa per rimettere in equilibrio i propri pesi nei confronti della concorrenza. Così si legge l’arrivo di Kondogbia, conteso a Milano fra Inter e rossoneri e, alla fine, a corte Mancini per una cifra (30 milioni più bonus) che ne fa lo straniero arrivato dall’estero più pagato davanti a Higuain (37) nell’era euro. Ma, così, si possono leggere gli sbarchi di Bacca dal Siviglia al Milan, di Mandzukic alla Juve, di Jovetic, cavallo di ritorno in Italia, stavolta all’Inter, o di Dzeko, bomber nobile dal City alla Roma. Un’invasione un po’ meno necessaria perché, al di là delle risposte che darà il campo, si registrano operazioni che sembrano fatte su misura per dare forza al partito di chi guarda con estrema diffidenza (e pericolo per i nostri giovani) la voglia, matta, di pescare altrove.
Da quattro continenti
Il numero dei ragazzi già «importati» dal nostro calcio è di 51, a poco meno di tre settimane dal traguardo del mercato, una tendenza che si conferma se è vero, ad esempio, che sempre 51 erano gli stranieri arrivati in Italia a metà agosto due stagioni fa. Sbirciando dentro la cifra emerge come ineludibile il meccanismo che va a premiare il nome straniero. Dietro ai volti più o meno noti, ecco una squadra di giovani, giovanissimi europei, sudamericani, africani o asiatici (quest’ultimo il caso dell’iracheno dell’Udinese Adnan). Palermo, Udinese, Atalanta, Carpi e Genoa sono le società che più stanno scommettendo su ragazzi che, fino a poche settimane fa, giocavano in campionati minori in giro per l’Europa o in club di seconda fascia. Piccole operazioni, che però contribuiscono a far lievitare il monte della spesa, che ha già toccato 242 milioni di euro circa, a mercato ancora aperto e di gran lunga più oneroso almeno dal 2008 a oggi alla voce investimenti fuori dall’Italia.
Scommesse da verificare
Un’invasione senza argini ed arricchita da una gruppo, numeroso, di carneadi. C’è il «nuovo Mascherano», Gaspar Iniguez, ad Udine, così definito all’Argentinos. C’è il nuovo Pogba, Olivier Ntcham, 19 anni, così etichettato perchè come lo juventino si è formato nella scuola del Le Havre e, su di lui, il Manchester City vuole tenere gli occhi avendolo mandato al Genoa solo in prestito per le prossime due stagioni. C’è, poi, il «martello» dell’Atalanta Marten De Roon, nato difensore e creato centrocampista da Van Basten quando l’ex fuoriclasse del Milan lo allenava all’Heerenveen. E c’è anche il miglior realizzatore del campionato polacco, Kamil Wilczek, 27 anni, l’anno scorso al Piast Gliwice. Una colonia di ragazzi, giovani e coraggiosi. Il nostro campionato si confermerà aperto come sempre: c’è da chiedersi se la percentuale di impiego di giocatori stranieri continuerà a salire, magari sfiorando ancora di più il 60 per cento (l’anno scorso si è fermata poco al di sotto la soglia indicata). Kondogbia guida il gruppo dei più attesi, dietro di lui la lista continua ad allungarsi.
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ALESSANDRO ANGELONI, IL MESSAGGERO 13/8 –
Forse non se lo aspettava nemmeno il direttore generale della Roma, Mauro Baldissoni, quando la sera del 25 aprile (pre-partita Inter-Roma), si era lasciato andare a una ottimistica previsione. Eccola: «Abbiamo cominciato un lavoro e cerchiamo di migliorare ogni anno. Ovvio che possono esserci stagioni particolari. Quello che faremo sarà cercare di ritoccare quello che stiamo costruendo». Si voleva rittocare, in corso d’opera poi si è capito che serviva una rifondazione. Molto è stato già fatto (cessioni illustri, Romagnoli, e sicuramente meno, Doumbia) e tanto dovrà essere ancora fatto (arrivi col botto, Dzeko, e acquisti da fare o da ultimare, Garay, Digne, Bruno Peres etc etc), perché alla fine del mercato mancano ancora una ventina di giorni, ma per fortuna quella Roma sbiadita della passata stagione è stata rifondata e non soltanto ritoccata. Nei calciatori, nell’ossatura di squadra, e pure negli uomini a contorno della squadra stessa. Qualche esempio: via il vecchio team manager, Salvatore Scaglia, e dentro quello nuovo, Manolo Zubiria; out il vecchio preparatore, Paolo Rongoni, dentro Darcy Norman con il suo staff; via il medico Francesco Colautti, dentro Riccardo Del Vescovo, ex prof della Primavera. Ma quel che colpisce è la mano forte del ds Walter Sabatini sulla squadra. Tra acquisti in tono minore, botti estivi e addii, la squadra messa (e che sarà messa entro il 31 agosto) a disposizione di Rudi Garcia sta cambiando pelle. La difesa sarà rinnovata quasi nella sua totalità, perché se dopo Romagnoli parte Yanga Mbiwa, di centrali ne arriveranno minimo altri due, più si sta operando per l’arrivo di due terzini nuovi. Facendo un’ipotesi le novità alla fine di agosto, quindi a chiavi della squadra consegnate definitivamente a Garcia, saranno: tre davanti, quattro/cinque in difesa e forse uno in mezzo al campo, qui siamo alla sorpresa. Ritocchi? Non proprio. E per fortuna.
Alessandro Angeloni
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BENEDETTO SACCA’, IL MESSAGGERO 12/8 –
Cambia il paesaggio anche nel calcio. Da un lato i soldi arricchiscono le società già floride; dall’altro affiorano in superficie piccoli club, squadrette poco conosciute, attrazioni di piccoli centri, fiabe da raccontare. Così, sorvolando i campionati del nostro continente, si scopre che quest’anno l’Europa celebrerà l’esordio assoluto addirittura di sei squadre nelle massime divisioni italiane, inglesi, tedesche, francesi e portoghesi. La tendenza è evidente e non può non essere approfondita.
FAVOLE E SOGNI
In Italia atterreranno il Frosinone guidato da Roberto Stellone e il Carpi di Fabrizio Castori. Dopo aver completato una stupenda cavalcata in serie B, le due squadre hanno conquistato una promozione più che meritata, spalancando le porte del grande palcoscenico a platee e città finora acquattate in secondo piano. Peraltro la serie A non accoglieva due esordienti da 22 anni, vale a dire dalla stagione 1993/94: erano i tempi in cui si dava il benvenuto alla Reggiana di Marchioro e al Piacenza di Cagni. Rilanciato dall’imprenditore russo Maxim Victorovich Demin, il Bournemouth suscita invece la curiosità di mezza Inghilterra. Bisogna annotare che le ciligie, ecco il bel soprannome del club, alla prima giornata hanno perso contro l’Aston Villa, ma i tifosi assicurano di aver messo da parte scorte di entusiasmo, utili ancora per settimane. Certo, lunedì si giocherà ad Anfield Road contro il Liverpool, e chissà il cuore che ginnastica... Il tecnico Eddie Howe, 37 anni, però ha saputo allestire una formazione capace di firmare l’enormità di 98 gol durante la scorsa stagione. Quanto alla Germania, la matricola iscritta all’università della Bundesliga è l’Ingolstadt. L’allenatore è un austriaco, Ralph Hasenhuttl; il presidente è un tedesco, Peter Jackwerth: ma in realtà l’azionista di maggioranza è il gruppo Volkswagen, quello delle automobili, che ad essere esatti possiede anche il 100 per cento del Wolfsburg e l’8,33 per cento del Bayern Monaco. Sabato l’Ingolstadt sentirà il profumo della Bundes a Mainz, poi il 23 riceverà il Borussia Dortmund all’Audi Sportpark, 15.445 posti in riva al Danubio. Dei portoghesi del minuscolo Tondela poco si sa, se non che all’avvio riceveranno addirittura lo Sporting Lisbona di Aquilani. Viceversa, in Francia, il capolavoro l’ha disegnato il Gazelec Ajaccio, la seconda squadra del capoluogo corso. Già l’origine del nome è a mollo nel mito: deriva dalla fusione delle parole «Gaz de France» e «Elec-tricite de France», che definivano la società proprietaria del club negli anni ‘60. Planata nella Ligue 1 con un fatturato di soli 4,5 milioni di euro, la squadra di Thierry Laurey gioca nel piccolo stadio Ange-Casanova, che può ospitare non più di cinquemila spettatori. Si diverte nel Gazelec anche l’ex interista Jeremie Brechet, e non mancano le sorprese come Pablo Martinez, dilettante fino a pochi mesi fa. Domenica, poi, la comitiva corsa volerà al Parco dei Principi per affrontare il Psg.
DUE UNIVERSI
E, qui, stride il confronto. Il Psg miliardario e l’invisibile Gazelec: due modi di stare nel calcio, due universi possibili, l’uno davanti all’altro. Forse sembra ancora calcio in vacanza. Ma è campionato. È probabile che partite del genere attirino pochi ritorni economici, e alla lunga impoveriranno le leghe: eppure a tramandare e ad arricchire il patrimonio sportivo provvede anche la democrazia del pallone, che azzera gli scarti, e proietta tutti su un piano comune. E regala a una squadretta di esordienti il sogno di beffare lo squadrone degli sceicchi.
Benedetto Saccà
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MATTEO PINCI, LA REPUBBLICA 13/8 –
Vincolanti, ad personam, a volte vessatorie. Il contratto di un calciatore può essere un dedalo di voci incomprensibili, volute in maniera più o meno subdola da procuratori e presidenti. Le chiamano clausole, ma per chi deve firmarle possono diventare un incubo. Chiedete a Cassano se gli abbia fatto piacere accettare il codice anti cassanate di Ferrero: ogni alzata di sopracciglio giù multe, ma può rischiare pure la rescissione. Materia per avvocati, almeno quanto la condizione ottenuta dal Barcellona nella cessione all’Amburgo del baby Halilovic: lo volete? Fatelo giocare almeno 3 partite su 5 o non se ne fa nulla. Detto, fatto. Alla Roma di quanto Romagnoli giocherà con il Milan importa poco, piuttosto i giallorossi sarebbero felici se fosse rivenduto al doppio dei 25 milioni incassati: per mister Pallotta vorrebbe dire prendersene altri 7, senza che Galliani possa dire nulla. Anche Sarri non può più dir nulla: pare che al tecnico piaccia spesso discutere di sport in pubblico, così De Laurentiis è riuscito a spuntare una clausola anti-chiacchiere nel contratto del tecnico: se lo fa, multa. Chissà se lo controlleranno anche con gli amici al bar. Molto peggio poteva andare però a Valdifiori, visto che il Napoli voleva tenersi la possibilità di rivenderlo entro due anni senza nemmeno chiedergli il permesso. Una sorta di cessione coatta, a cui il regista, una volta scoperta, ha detto no.
Vi sembra una follia? Forse non siete mai stati in Inghilterra. Oxlade-Chamberlain nel 2011 era talmente felice di passare all’Arsenal da ignorare la clausola che impone ai Gunners di pagare 9000 sterline al Southampton ogni volta che gioca più di 20 minuti. Non proprio un incentivo al suo utilizzo, per Wenger. Che anni prima a Bergkamp aveva concesso di essere esentato dai viaggi aerei per la sua paura di volare. Al contrario Eto’o pretese dall’Anzhi un elicottero che lo portasse ogni giorno da Mosca a Makachkala per allenarsi. Il volo pindarico dell’ex viola Schwarz divenne una voce sul contratto col Sunderland: aveva confessato di sognare un’avventura nello spazio, i Black Cats gli fecero firmare un impegno a rinunciare alle missioni interstellari.
A volte la clausola può servire a evitare di ritrovarsi in guerra, come quella che chiese nel 2002 il tecnico Stange per andare ad allenare l’Iraq. Altre a prevenire una debolezza: quelle del cattivissimo Neil Ruddock erano cibo e alcool. Così il Crystal Palace, non trovando pantaloncini della sua taglia, poteva multarlo ogni volta che superava i 99 chili: 8 volte in sei mesi, per la precisione. Nel 2001 al Cardiff bisognava cedere alle stranezze del presidente libanese Hammam: Spencer Prior per essere tesserato si impegnò a mangiare testicoli di montone e a far sesso con una pecora. In confronto la pretesa dello Sporting per cedere alla Lazio Mauricio è quasi banale: Lotito potrà rivenderlo a chiunque, tranne Benfica e Porto. Il Chelsea invece non voleva trovarsi contro in Champions il portiere Curtois, prestato all’Atletico, e lo mise nero su bianco: la Uefa però ritenne il vincolo illegittimo. Mica tutte le clausole riescono col buco.
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GIANLUCA MONTI, LA GAZZETTA DELLO SPORT 13/8 –
Maz...Sarri, magari pronunciato alla spagnola. Ritorno al futuro — o al passato — per il Napoli e per Aurelio De Laurentiis che l’altro giorno da Oporto per elogiare il nuovo allenatore del Napoli (o per colpire Benitez, fate voi) ha detto: «Non si lavorava così dai tempi di Mazzarri».
MANIACI DI BIONDE In effetti, i punti di contatto tra Sarri e Mazzarri non mancano. Toscani entrambi (il primo di adozione essendo nato a Napoli, il secondo «autentico») e scaramantici al punto giusto, amano il bel calcio e le sigarette. Certo, per Maurizio la linea a quattro è un dogma come per Walter la retroguardia a tre, ma l’attenzione maniacale alla fase difensiva è la stessa. Concetti diversi, ma da trasferire alla squadra attraverso lunghe sedute tattiche. Sarri allena quello che la società gli mette a disposizione, indica i ruoli e non i nomi. Quando è arrivato Chiriches ha detto di conoscerlo poco, più o meno la stessa frase usata da Mazzarri quando gli recapitarono Vargas (a proposito, per il cileno si è fatto avanti il Galatasaray sempre che a Marsiglia non vada il suo mentore Sampaoli...). Hanno la risposta pronta ed una dose di furbizia che non guasta.
EUROPA LEAGUE Mazzarri, però, a differenza di Sarri prima di sbarcare a Napoli aveva già alle spalle una esperienza internazionale con la Sampdoria. L’ex allenatore dell’Empoli è invece pronto ad esordire in Europa League sulla panchina azzurra e già ha chiarito che non si discosterà poi troppo dal concetto dei «titolarissimi». Niente turnover sfrenato alla Benitez, ma quattro o cinque cambi al massimo. Lo si è capito da queste prime amichevoli, il nuovo Napoli ha più certezze che dubbi. Sarri insiste sulla mediana Allan-Valdifiori-Hamsik, che sarà in campo dall’inizio anche domani a Latina, e su Insigne trequartista, una sua invenzione della quale è fermamente convinto (ed i primi test gli hanno dato ragione). Mertens è e sarà la punta rapida da affiancare ad Higuain (ma Callejon avrà il suo spazio).
COPPIE Altri reparti, invece, hanno bisogno di innesti per completare il «gioco delle coppie». Dal mercato dovranno arrivare un altro difensore centrale, un esterno e una mezzala (oppure uno come Sala del Verona, capace di fare entrambi i ruoli e che garantirebbe quella fisicità che in parte manca all’organico azzurro). Centimetri che farebbero comodo sono anche quelli di Maksimovic: ieri nuovo contatto con il Torino, che chiede 25 milioni. Il Napoli è arrivato a 18 più bonus: «Maksimovic a 25 milioni, non è meglio tenerci Luperto», ha chiesto un tifoso ieri a De Laurentiis in quel di Cetara. «Sono d’accordo», ha detto il presidente. Insomma, la distanza con i granata resta. Così, Chiriches si candida ad essere il compagno di banco di Albiol mentre Maggio sarà un punto fermo a destra e Hysaj un prezioso jolly in attesa di conoscere il destino di Ghoulam e Zuniga.
OBIETTIVO CHAMPIONS De Laurentiis è tornato a parlare come faceva ai tempi di Mazzarri. Le sue ultime frasi non sono altro che il ritornello tipico del tecnico di San Vincenzo: «A testa bassa e a luci spente, onoreremo la maglia». Lo scorso anno disse: «Mazzarri mi diceva sempre che è meglio nascondersi, invece io lo scudetto me lo voglio giocare». Non è stato così ed il presidente ha ammesso di aver commesso un errore mediatico che gli si è ritorto contro. Da qui la scelta di puntare su Sarri, uno che la parola scudetto non l’ha mai pronunciata e non solo per scaramanzia. È importante mantenere i piedi per terra per poi prendere la rincorsa e provare a volare. Con Mazzarri è andata esattamente così, con Benitez l’obiettivo Champions non è mai stato centrato. Adesso tocca a Sarri, che non ama paragoni perché si è fatto da solo e sente di meritare una chance importante. Lui è Sarri e non Ma...Sarri, però De Laurentiis gli ha chiesto di riportare il Napoli nell’Europa che conta, ripercorrendo le orme del predecessore. Quello toscano, ovviamente.
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ANTONIO DI ROSA, LA GAZZETTA DELLO SPORT 13/8 –
Alla Juve si è aperta l’era Mandzukic. Non perché il centravanti croato ha segnato alla prima uscita ufficiale. Mario rinnova una tradizione bianconera che si era fermata ai tempi di David Trezeguet, cannoniere indiscutibile, 138 reti in 245 partite, pronto a spingere in rete le palle corte o perse dagli avversari. Uno capace di segnare con numeri di alta scuola o con colpi al volo di pregevole fattura. Mandzukic è diverso: ha una stazza imponente, è più forte nel gioco aereo, fa sponda con i compagni di reparto. Ha un gran tiro, forse è meno efficace come goleador anche se ha segnato tantissimo: 42 gol in una stagione nella Dinamo Zagabria otto anni fa, 33 nel Bayern Monaco tre anni fa, quando fu uno dei protagonisti del triplete tedesco. Con Mandzukic cambia anche il gioco della Juventus. Tevez andava a cercarsi la palla oltre la metà campo, impostava l’azione in velocità, cercava lo scambio per andare in porta. Il croato è diverso: tiene su la squadra, protegge la palla, la smista ai compagni e si posiziona in area pronto per colpire. Durante la sfida con la Lazio qualcuno si sarà chiesto come mai Allegri non sostituiva Mandzukic visto che stava giocando male. I centravanti come Mario sono utili soprattutto quando la squadra non gira, perché sanno sfruttare la prima occasione che capita e vanno in rete. La Juve, con questo acquisto, ha riscoperto l’utilità dell’attaccante-boa. Ma, a questo punto, Allegri ha bisogno di giocatori capaci di effettuare cross taglienti e precisi, come quello di Sturaro, per servire il suo ariete. Mario va alimentato a ripetizione, si carica se lo impegnano con assiduità, poi ci penserà lui a risolvere la questione con i difensori avversari. D’altronde, la Juve vanta gente come Morata, Dybala e Zaza pronti a sfruttare le qualità del compagno. La scelta della Juve non è unica nel panorama italiano. La Roma che ha preferito da anni la formula senza entravanti giocando col falso 9 Totti, ha cambiato idea. L’acquisto di Dzeko, omologo di Mandzukic, fa capire che anche Garcia vuole impressionare gli avversari con una strategia tattica diversa da quella degli anni scorsi. Quante occasioni da gol hanno gettato alle ortiche nelle ultime stagioni i giallorossi? Tantissime. Ora, con Dzeko, cercheranno di aumentare il potenziale offensivo. Anche il Verona, scegliendo Toni nella stagione passata, ha votato per il ritorno al centravanti vecchio stile. Ecco perché ritengo che Mandzukic apra un percorso nuovo nella Juve di Allegri: meno prevedibile e più concreta in fase realizzativa con la possibilità di cambiare modulo in qualsiasi momento. Ecco perchè servono un esterno efficace in fase offensiva e un altro dai piedi buoni a centrocampo: li vuole Allegri, ma li richiede la Juve a trazione anteriore.
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M.GRA, LA GAZZETTA DELLO SPORT 12/8 –
Di milioni, sotto il naso, ne sono sventolati parecchi. Cifre da manicomio, provenienti dai club più prestigiosi e potenti del mondo. Alla fine, però, Paul Pogba ha scelto ancora la Juve. Il 22enne francese aveva di fatto carta bianca: ufficialmente incedibile, sia chiaro, però Marotta non si sarebbe opposto a priori all’eventuale volontà del ragazzo di rispondere sì all’assegno della vita. E’ invece rimasto Paul, senza tentennamenti, lontanissimo dalla classica telenovela estiva di mercato e impossessandosi anzi della pesantissima «dieci» lasciata libera da Tevez. Una mossa che è piaciuta molto al club, perché interpretata come un forte segnale di appartenenza e di presa di coscienza di un ruolo da leader tecnico, automaticamente scaricato sulle spalle del francese dalle partenze di Pirlo, Vidal e appunto Tevez. La mossa di Pogba non va necessariamente intesa come una dichiarazione di lunga fedeltà alla causa bianconera, non esclude insomma un eventuale addio nella prossima estate, ma è di sicuro un messaggio forte, pieno di rispetto, rivolto all’intero pianeta Juve. Della serie: «Testa, gambe e cuore saranno per voi finché vesto bianconero». Paul ha capito che questo è un anno spartiacque a livello di carriera personale. Campionato, Champions ed Europeo chiariranno la categoria da assegnare a questo potenziale fenomeno: «semplice» campione o fuoriclasse da Pallone d’Oro?
I MOTIVI DI UNA SCELTA Parliamoci chiaro, bastava un cenno verso l’esterno e attorno a lui si sarebbe scatenato l’inferno. Ma Pogba è eccentrico solo nel vestire e a volte nell’uso dei social, con balletti o altro, perché dal punto di vista professionale è una macchina, un computer, un martello. E da ragazzo intelligente, e finora ben guidato, va detto, Paul ha individuato almeno tre buoni motivi per tenere lontane le sirene del dio denaro. Il primo va di pari passo con la giusta umiltà che non deve mai abbandonare chi punta molto in alto: in poche parole, il ragazzo ha capito di aver bisogno di almeno un altro anno di università tattica, tale viene infatti giudicata la Serie A da gran parte dei talenti stranieri. Poi, di sicuro ha influito parecchio anche la crescita tecnica della Juve, che nella scorsa stagione ha sfiorato il triplete, sopportando anche l’assenza di Pogba in un momento chiave. Infine, il terzo motivo è legato alla Francia, che il prossimo giugno ospiterà un Europeo pieno di aspettative: per preparare un appuntamento tanto delicato, non c’è infatti posto migliore di un ambiente conosciuto come le proprie tasche, un mondo che ti rispetta, ti vuole bene e sa assecondare ogni tuo problema, tecnico e personale. Diciamo anzi che anche il c.t. Dechamps ha esultato nel momento in cui si è capito che Pogba non avrebbe lasciato Torino e la Serie A.
IN CIFRE La quarta stagione in bianconero di Pogba è iniziata con una prestazione super e un assist nella Supercoppa italiana strappata alla Lazio. Ha segnato diciannove reti nelle ultime due stagioni, è salito in cattedra anno dopo anno, e ora tocca a lui «coprire» la quota gol che sapeva garantire Vidal. Complessivamente sono già 130 le presenze (24 reti) di un giocatore che a 19 anni era titolare in mezzo ad autentici mostri sacri. E’ a caccia della «stagione perfetta», per se stesso, ma soprattutto per la Juve e per la Francia. Poi, si vedrà: Real, Psg, Barcellona, Bayern o City nell’estate del 2016? Chissà, magari sarà invece ancora Juve, da uomo simbolo, da capitan futuro. D’altronde, Paul non è uno che ragiona solo di portafogli.
m.gra.
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MARCO IARIA, LA GAZZETTA DELLO SPORT 11/8 –
MILAN. Prima ancora di valutare il fattore Mr Bee, bisogna guardare in casa Fininvest, che ha ripreso a investire massicciamente nel Milan. Stentiamo a credere che Silvio Berlusconi, capace in quasi trent’anni di epopea rossonera di versare oltre 700 milioni nelle casse del Milan, abbia deciso di riaprire il portafogli nella speranza di incassare il tesoretto asiatico. Rischio troppo grande finché il closing non si materializza, e lui è troppo furbo e navigato… Insomma, è maturata una svolta tutta dentro la famiglia in questi ultimi mesi. Si è compreso soprattutto che di austerity si muore, come la Grecia. Le partenze dolorose di Thiago Silva e Ibrahimovic nel 2012, l’addio dei senatori, il taglio doveroso agli stipendi (calati dai 206 milioni del 2011 ai 155 del 2014), gli acquisti a parametro zero. Il risultato? Costi ribassati e gestione riequilibrata, ma organico impoverito e niente più proventi dalla Champions: i due anni di assenza dall’Europa d’élite sono stati un salasso da 100 milioni.
Fininvest è stata costretta a ripianare le pesanti perdite della squadra (64 milioni versati nel 2014 e altri 60 lo scorso marzo) ma ha poi deciso di passare al contrattacco, anche perché i conti della holding sono migliorati di recente, per esempio con i 377 milioni incassati dal collocamento in Borsa di un pezzetto di Mediaset. Il mercato estivo è stato scoppiettante: 83 milioni spesi per Bacca, Romagnoli, Bertolacci, Luiz Adriano contro la sola uscita di El Shaarawy (3+13 di riscatto). E i 480 milioni dei nuovi soci asiatici? Una parte consistente andrà per ridurre il debito e per attivare gli investimenti. Ma quei soldi devono ancora arrivare.
INTER. L’Inter sta giocando al rischiatutto. Thohir sa che soltanto agganciando il treno della Champions si potrà materializzare davvero il progetto di rilancio della società, economico e commerciale. Per questo ha autorizzato Ausilio e Fassone a un’operazione costosissima come quella di Kondogbia, l’unico giocatore preso a titolo definitivo, con un fisso da 30 milioni più bonus. Già, ma con quali fondi? Le cessioni sono fondamentali e vi spieghiamo perché. L’Inter è una macchina che perde tanti, tantissimi soldi: 102 milioni nel 2013-14, una novantina nel 2014-15. Thohir le ha prestato tre mesi fa 60 milioni, che sono serviti per completare la scorsa stagione e che potrebbero bastare per l’esercizio in corso, a patto di rispettare la prescrizione dell’Uefa di chiudere il 2015-16 con un deficit massimo di 30 milioni (al netto degli aggiustamenti del fair play). Come si fa ad avere un bilancio di -30? Solo con una campagna acquisti a saldo zero.
Tranne Kondogbia, le altre operazioni in entrata – i cosiddetti pagherò – hanno avuto un duplice vantaggio: finanziario perché si diluiscono i pagamenti, contabile perché gli ammortamenti scattano solo quando il riscatto diventa obbligatorio, addirittura nel 2016-17 per Jovetic e Miranda. Tuttavia, l’addio di Shaqiri e i 20 milioni incassati dalle uscite minori non bastano. A parte gli esuberi già noti, serve pure una cessione da 10-15 milioni per non avere problemi di cassa e non dover chiedere a Thohir altre iniezioni di denaro entro Natale. È chiaro che l’Inter ha assunto impegni onerosissimi per i prossimi anni, che si potranno rispettare solo con gli incassi della Champions. Altrimenti, la prossima estate bisognerà vendere i pezzi pregiati .
JUVENTUS. Per spiegarlo bisogna risalire al 2011. La Juventus dei settimi posti, ancora lì a leccarsi le ferite di Calciopoli. Exor vara un piano quinquennale con una cura da cavallo da 120 milioni, derivanti dall’aumento di capitale. La missione consegnata al management è la seguente: spendete ma con oculatezza e lungimiranza, crescete, tornate a vincere e allo stesso tempo risanatevi e rendetevi autosufficienti. Rosa ricostruita a suon di investimenti (quasi 200 milioni al netto delle cessioni nelle ultime 4 stagioni) e competitività massima in Italia ed Europa. Il fatturato è schizzato, dai 156 milioni del 2011 ai 280 del 2014 fino ai 320 milioni stimati per il 2014-15 e ai 350 per quest’anno, ma sono schizzati anche i costi, con le spese per il personale praticamente raddoppiate.
Nessuno in Italia vanta il livello di spesa sportiva (stipendi tesserati+ammortamenti) della Juventus, ormai attorno a quota 250 milioni. E per tenere a bada i conti quel numerino va rapportato costantemente al giro d’affari. I rinnovi di Pogba, Marchisio, Bonucci, Allegri, per esempio, hanno inciso su quel rapporto. È vero che questa estate si è registrata la plusvalenza record di Vidal (32 milioni, la più alta dai tempi di Zidane) ma il saldo del mercato è negativo di una trentina di milioni. Ora che la Juve ha raggiunto un certo equilibrio contabile, con deficit ridotto (sarà così anche per il bilancio 2014-15 ancora da approvare), non ha alcuna intenzione di disfare la tela. Anche perché sulla posizione finanziaria netta, negativa per circa 200 milioni, incide il mutuo dello stadio, ancora in carico per una quarantina di milioni.
ROMA. La Roma è uno dei due soli club italiani ad avere, al momento, la certezza dei 50 milioni di incassi, tutto incluso, della Champions. Sono quei ricavi extra che fanno la differenza tra la classe media e l’aristocrazia. Ma i giallorossi non vivono in acque tranquillissime, con una gestione che brucia ancora parecchia cassa, come dimostra il risultato atteso in perdita pure del bilancio 2014-15, in cui gli stipendi sono cresciuti del 20%. Nei primi quattro anni Pallotta e soci hanno versato 100 milioni (l’aumento di capitale dell’anno scorso ne ha regalati altri 20 grazie ai piccoli azionisti) ma gli americani non sono mecenati, fanno business e perseguono il ritorno dell’investimento, individuato sul lungo termine nel faraonico progetto dello stadio. Nell’attesa cercano di rincorrere il sogno scudetto e di restare agganciati ai quattrini della Champions senza svenarsi particolarmente, anche perché ci sono i paletti del fair play Uefa: 30 milioni di deficit massimo tra 2014-15 e 2015-16 e innesti di giocatori in lista condizionati al saldo di mercato.
I trasferimenti che si autofinanziano sono una regola per il d.s. Sabatini. Nelle ultime tre stagioni il saldo complessivo tra acquisti e cessioni è stato negativo per soli 20 milioni: organico notevolmente potenziato grazie ai proventi dei vari Lamela, Marquinhos, Benatia. È così anche quest’estate. I sacrifici di Romagnoli e Bertolacci hanno compensato, in parte, gli esborsi per Dzeko e compagnia: al momento siamo sotto di una ventina di milioni, ma stanno per uscire pure Destro e Yanga-Mbiwa. E le formule di prestito con riscatto adottate per Salah, Iago Falque e Ibarbo consentono di respirare un po’.
NAPOLI. Higuain è uno dei più forti centravanti al mondo: pagato dal Napoli 37 milioni nel 2013, ha uno stipendio di 5,5 milioni annui. Nonostante le due stagioni di fila fuori dalla Champions, il San Paolo è ancora la sua casa. Se De Laurentiis riesce ancora a trattenere la sua stella, è perché il Napoli non è con l’acqua alla gola. In questi anni ADL ha saputo far di conto, tanto che il club azzurro ha accumulato un patrimonio netto di 72 milioni al 30 giugno 2014 e disponibilità liquide, gelosamente custodite in UniCredit, per 42 milioni alla stessa data. Frutto di otto bilanci di fila in utile, tra il 2006 e il 2014.
Qualche campanello d’allarme, tuttavia, comincia a risuonare. La scorsa stagione dovrebbe essersi chiusa in perdita: negli anni precedenti erano state le plusvalenze, come i 64 milioni di Cavani, ad assorbire la lievitazione di stipendi e ammortamenti, ma nel 2014-15 i proventi dalle cessioni hanno fruttato “solo” 12 milioni. Ci sono ancora bei margini di sforamento, visto anche che il Napoli, stando al bilancio 2013-14, non ha debiti con le banche: quasi un’eccezione in Italia. Però l’assenza dalla Champions si fa sentire su un conto economico che presenta ormai costi da big. De Laurentiis lo sa e sul mercato usa il bilancino. In questa estate sono stati investiti una trentina di milioni ma l’obiettivo della dirigenza è di ottenerne altrettanti dalle cessioni in modo da finanziare i trasferimenti. E Higuain? Per ora resta. Il Napoli ammortizza le spese per gli acquisti in misura decrescente e non a quote costanti: ciò significa che sono stati ammortizzati già 26 milioni per Higuain, con un costo residuo di 11. Insomma, presto o tardi sarà una plusvalenza record.
LAZIO. Claudio Lotito si è sempre vantato di avere risanato la Lazio. Certo, una grossa mano gliel’ha data l’Agenzia delle Entrate che nel 2005, alcuni mesi dopo il suo insediamento, ha spalmato per 23 anni i 140 milioni di debiti ereditati da Sergio Cragnotti. Ma Lotito è stato pure bravo a rispettare la regola base di qualsiasi sana azienda: spendo soltanto quello che incasso. Le rare volte che in questo decennio ha chiuso il bilancio in perdita, il patron biancoceleste ha vissuto l’onta quasi come una sconfitta nel derby. Nei primi nove mesi della passata stagione la Lazio aveva registrato una perdita di 14 milioni, cosa che lascia immaginare un rosso sull’esercizio 2014-15, ancora da approvare. Apriti cielo...
In questi ultimi anni Lotito aveva alzato l’asticella degli ingaggi, ma lui che mecenate non è sa benissimo che bisogna fare attenzione. Senza plusvalenze o introiti europei i profitti non arrivano. Da qui la cautela su questo mercato, abbinata a una visione sul medio-lungo periodo. C’è da dire che la Lazio aspetta ancora di capire se potrà accedere ai denari della Champions: c’è il playoff da giocare contro il Bayer Leverkusen, alla squadra perdente l’Uefa regala un contentino da 3 milioni per il disturbo, con la vittoria si schiude un caveau da almeno 40 milioni per i laziali (meno di Juve e Roma dal market pool). Nel frattempo la Lazio ha puntato tanto sui giovani (Kishna, Milinkovic-Savic, Morrison), ha riscattato Parolo e Basta e soprattutto sta trattenendo le stelle Felipe Anderson e Biglia. Una quindicina di milioni spesi e niente botti, sognando i gironi della Champions.
LE ALTRE. Una volta c’erano Berlusconi e Moratti. Con la crisi il mecenatismo è tramontato, salvo riapparire in questi mesi sulla sponda rossonera. E il resto? In provincia c’è un mecenatismo che resiste. Prendete il Sassuolo. Una piccola, per bacino d’utenza e tradizione. Una media, quantomeno, per le disponibilità economiche. Nel corso del 2014 (i bilanci neroverdi seguono l’anno solare e non sportivo) Giorgio Squinzi ha investito nella squadra di calcio la bellezza di 46 milioni: 22 sotto forma di mega-sponsorizzazione della Mapei e 24 come versamenti in conto di capitale. Il Sassuolo ha chiuso il 2014 in perdita per 16 milioni, ma ha le spalle robuste e anche quest’estate si è potuto permettere di soffiare alla concorrenza Defrel, pagato 7 milioni, e di riscattare Berardi per 10, ma nell’ambito delle operazioni con la Juve che hanno portato alla cessione definitiva di Zaza (18).
Il nuovo che avanza è Joey Saputo, azionista di maggioranza del Bologna che in B ha investito 37 milioni e ora ha messo in preventivo altri 25-30 milioni di versamenti per finanziare la stagione di Serie A. Saputo si destreggia tra la necessità di risanamento (il Bologna era quasi fallito, con tanti esuberi) e le ambizioni della piazza: un’operazione come quella di Destro cerca di conciliare le due cose. Chi si è un po’ stancato di fare il mecenate, senza trofei in bacheca nonostante gli sforzi profusi, sono i fratelli Della Valle: dopo i 37 milioni di deficit del 2014 hanno imposto alla Fiorentina un mercato oculato. Chi ha smesso di fare il mecenate è Urbano Cairo: da Ogbonna in poi, le plusvalenze hanno consentito al Torino di camminare con le proprie gambe e di non rinunciare a bei colpi in entrata.
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CARLO LAUDISA, LA GAZZETTA DELLO SPORT 10/8 –
Chiedete a un gemmologo se è bene investire in un diamante grezzo: vi risponderà che dipende dalla grandezza e dalla purezza. L’esempio può valere per Alessio Romagnoli, il talento che il Milan strappa alla Roma per oltre 25 milioni di euro. Una cifra che fa discutere per un difensore di appena 20 anni. Non a caso, quando lo stesso Milan nel 2002 acquistò Alessandro Nesta dalla Lazio ne spese addirittura 32, di milioni. Eppure il fuoriclasse romano aveva già 26 anni e una ricca esperienza in Serie A, al contrario del giallorosso che può esibire soltanto l’ultima stagione nella Sampdoria.
I pareri controversi sull’argomento sono più che giustificati. Silvio Berlusconi ha avallato un investimento cospicuo in un ruolo in cui in genere il proprietario del club rossonero non ha mai speso più di tanto. Evidentemente ha vinto il pressing di Sinisa Mihajlovic, pronto a scommettere sull’affermazione del ragazzo. Ci sta che in un progetto ambizioso di rinnovamento in via Aldo Rossi decidano di alzare la posta per il cartellino di un giovane su cui tutti puntano a occhi chiusi. Tant’è vero che a Romagnoli viene pronosticato un gran futuro in Nazionale. Aggiungiamoci che l’ingaggio da 2 milioni netti a stagione rende, comunque, sopportabile l’operazione per i conti rossoneri. È diverso quando certe cifre vengono spese per calciatori ben più avanti negli anni.
E qui viene il concetto del diamante grezzo. Se Romagnoli (come e più di Nesta) saprà percorrere la strada del successo, con il passare degli anni questo rilevante costo evaporerà nei ricordi. Ovviamente se così non fosse questo super-prezzo diverrebbe un autentico marchio. Per tutti. Sullo sfondo il mercato ormai non ha più freni. Una volta i club si svenavano per i goleador, lasciando le briciole per il resto. Ora, invece, accade che si scatenino aste furibonde anche per i difensori. Ne sa qualcosa la Roma su questo versante, visto che ha fatto affari d’oro con i suoi centrali. Dopo i 34 milioni incassati dal Psg per il debuttante Marquinhos, l’estate scorsa Walter Sabatini ha portato a casa alti 30 milioni per Mehdi Benatia al Bayern Monaco. Il solito Psg nel 2014 ha messo sul piatto addirittura 50 milioni per strappare David Luiz al Chelsea. E ora José Mourinho pare disposto a spenderne 42 per il promettente John Stones dell’Everton. Fatalmente qualcuno non risponderà alle attese, questo va messo nel conto. L’auspicio è che Romagnoli faccia strada insieme al gemello Davide Rugani: lo scorso gennaio la Juve ha speso appena tre milioni per riscattarlo subito dall’Empoli. Ma quella è un’altra storia...
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LUIGI GARLANDO, LA GAZZETTA DELLO SPORT 9/8 –
Messaggio da Shanghai per il campionato: la Juve è cambiata, ma è rimasta la Juve. Si è trasformata nella forma e, al momento, in mezzo al guado dell’evoluzione, è necessariamente meno organizzata, meno bella, meno forte di prima, ma ha mantenuto l’anima dei quattro scudetti, quella prodigiosa capacità di applicazione che le consente di dare il meglio al momento più opportuno. Come alla Lazio non riesce quasi mai. Ha un ottimo allenatore, un’identità di gioco, un serbatoio di qualità non inferiore alla concorrenza, ma più cresce la temperatura di un match, meno riesce a spenderla. Ha i dribbling letali di Felipe Anderson, gli strappi di Candreva, le incursioni di Parolo, i guizzi da cobra di Klose, ma in un derby o in una finale difficilmente queste individualità si accendono tutte insieme. Brilla Felipe Anderson, si spegne Candreva. Pioli sembra il mossiere del Palio che cerca di fare entrare i cavalli tra i canapi: quando gioca bene Anderson, stecca Candreva... La Lazio può mettere in fila otto vittorie per inerzia di valori, ma quando deve esprimere il meglio in una partita secca, si perde spesso, per mancanza di leader trascinanti. Non è un caso che si discuta tanto sulla fascia, perché di capitani che si impongano naturalmente, per carisma e personalità, la Lazio non ne ha. Mentre la Juve, persi Pirlo, Tevez e Vidal, conserva anime forti come Buffon, Bonucci, Chiellini, Marchisio, tutti capitani, che tengono la barra dritta anche nel guado delle trasformazioni e trasmettono motivazioni feroci per contagio. Però la Juve è cambiata e non le sarà facile guadagnare in fretta un assetto affidabile come il precedente. Vincere la prima partita ufficiale con i gol dei nuovi acquisti è il sogno di ogni società. Ai sigilli di Mandzukic e Dybala, Agnelli e Marotta avranno fatto carnevale. Ma è presto per archiviare la nostalgia di Pirlo, Vidal e Tevez: erano la colonna vertebrale della Signora che deve ancora imparare a camminare senza. Le orribili zolle cinesi apparivano ancora più brutte davanti all’area di Buffon, perché un tempo lì fioriva Pirlo. Aperta parentesi. Se ieri Pirlo si fosse occupato della regia televisiva, non avremmo assistito a quelle immagini da cineforum parrocchiale. Chiusa parentesi. L’avvio dell’azione bianconera per ora è affannato e impacciato. Tevez che rinculava verso il centrocampo e Vidal che si buttava in area, incrociandosi, legavano i reparti e accorciavano la squadra. La nuova Juve appare ancora slegata. Mandzukic, prima di segnare, è rimasto a lungo isolato e irraggiungibile. Per recuperare l’antica efficenza, Allegri è costretto a inventarsi cose nuove, anche a costo di snaturare i protagonisti. Guardate i gol di Shanghai. Mandzukic ha segnato su cross di Sturaro, che non è nato per aggredire la profondità e raggiungere il fondo. Pogba ha assistito Dybala in area come il 10 che vuole essere. Due sensazioni: in questa Juve che sta cambiando pelle, Dybala, abile a legare i reparti col suo movimento leggero, serve più di quanto al momento immagini Allegri. Seconda: la Juve ha perso troppa qualità, non può prescindere dal top-player a centrocampo che sta cercando se intende ripetere la splendida cavalcata in Champions. In Serie A può bastare l’anima dura, in Europa no. Comunque l’anima è integra e non è poco. Questo ha detto Shanghai, prima di tutto: la Juve è ancora la Juve.
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MATTEO PINCI, LA REPUBBLICA 14/8 –
CHISSÀ se Edin Dzeko ha ripensato alle parole del collega laziale Lulic. Chissà che se ha dato un senso diverso a quel «non venire a Roma» del connazionale, leggendo i messaggi di insulti che tanti romanisti hanno rivolto al diciottenne brasiliano Gerson. Nell’estate di mercato più esaltante che la sua storia recente ricordi, la Roma scopre che il nemico da temere non è la Juventus. È se stessa. O meglio, quel ventre ristretto ma rumorosissimo che le si agita dentro provocando dolorosi mal di pancia. «Non possiamo essere vittime di un agguato al giorno », denuncia il ds Sabatini con la voce tremante dalla rabbia, mentre cerca di difendere quel ragazzo brasiliano di diciotto anni appena sbarcato in Italia dal Brasile con l’unica colpa di aver ostentato su twitter la sua nuova maglia della Roma, col suo nome sopra al numero 10 di Totti. Qualcuno sperava forse che bastasse una campagna acquisti da scudetto, un mercato virtuoso condotto sempre in equilibrio o quasi e in rosso per appena 8,5 milioni, per convincere l’anima torrida della piazza a deporre le armi. Macché.
Quella di ieri avrebbe dovuto essere una giornata di festa: i sorrisi del nuovo centravanti bosniaco, l’uomo che incarna più di ogni altro la voglia di rivalsa dei giallorossi e la sfida giallorossa al campionato. Le battute ironiche con fuoco puntato sul derby: «Lulic voleva dissuadermi dal venire qui, gli ho chiesto se avesse paura». Alla fine è stata tutt’altro. Indispensabili due interventi istituzionali, del ds e del capitano della Roma, per spegnere le fiamme di rancore e odio che avevano accerchiato Gerson. «È una cosa disgustosa, la maglia gliel’ho data io per convincerlo a scegliere la nostra squadra», la rabbia del dirigente. «Tutti devono avere la possibilità di sognare e indossare il 10, facciamo innamorare chi è appena arrivato», lo schiaffo di Totti a polemiche e polemici. Ma ogni giorno è un giorno di fuoco, a Roma: ieri nel mirino è finito Gerson, ventiquattro ore prima Romagnoli, chiamato infame, minacciato di morte sul muro della casa dei genitori ad Anzio. Per fortuna c’è chi agli imbecilli volta le spalle, chi li condanna, chi li disprezza, chi manda messaggi di solidarietà al difensore ceduto al Milan o di benvenuto al ragazzino brasiliano, costretto ieri a spiegare che il dieci non è nemmeno il suo numero preferito. Eppure l’onda d’odio si alimenta e colpisce tutti.
E oggi si rovescerà anche sulla festa estiva per eccellenza: la presentazione della squadra all’Olimpico, il battesimo della nuova stagione. Si chiama Open day, ma le porte rischia di chiuderle. Il questore ha già avvisato tutti durante il vertice sulla sicurezza di ieri: se stasera si verificheranno situazioni di tensione è pronto a far giocare Roma-Juve del 30 agosto senza curva sud. Già, perché dopo gli episodi dello scorso anno già si temono contestazioni: un gruppo ne ha annunciata una via internet per protestare contro la segmentazione della curva e ha messo nel mirino il prefetto Gabrielli che la divisione l’ha voluta e James Pallotta che non ha difeso gli abbonati. Non gli hanno perdonato al presidente la definizione di fucking idiots, e hanno già contestato lui e la squadra dopo 30 minuti appena del primo test amichevole. Si chiamano tifosi, ma il nemico della Roma, oggi, sono soprattutto loro.
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MAURIZIO CROSETTI, LA REPUBBLICA 9/8 –
INUOVI SEGNANO subito: un segno, un segnale. Ed è un bene che il futuro cominci già a marchiare la Juve, per evitare i morsi (e i rimorsi) della nostalgia. Dunque Mandzukic e Dybala. Meglio loro, con un paio di gesti quasi simbolici, per aprire una stagione che non sarà facile e avrà confronti continui con quello che è stato, con quello che non è più.
Per intanto si capisce che il croato, se qualcuno sa crossare, fa gol. E fa gol anche l’argentino, se lo fanno giocare. La qualità passa d’istinto, per puro talento, dal ragazzo Dybala che pure deve sgrezzarsi, evitando qualche inutile giochetto con la palla al limite della propria area. Alla Juventus non si può fare i fenomeni: bisogna esserlo.
Anche se, poi, il peso specifico dei medesimi è sceso e si sapeva. Il gioco e i gol dovranno conoscere altre strade, sarà un problema quasi filosofico, una rivoluzione nel gestire e sviluppare lo schema: palla lunga e tesa per il manzo d’area, e molti palloni per la sua fronte spaziosa. Tutto l’opposto di quanto accadeva per (e con) Tevez. Di sicuro, la prima Juventus in salsa cinese conferma che serve un nuovo creatore di cose improvvise, uno che sprizzi scintille dietro le punte (Dybala è un attaccante, non un rifinitore), insomma il numero 10 che a livello aritmetico si è posato sulle spalle di Pogba, smisurato campione ma un 10 proprio no. Mercato, dunque.
Ma il senso di novità, ben stretto alla vecchia vocazione vincente è già evidentissimo. Questa è una squadra che, nei suoi movimenti, avrà poco a che vedere con le ultime versioni. Davanti alla difesa, Marchisio non può fare il Pirlo ma la posizione e il ruolo sono più o meno quelli: basterà? Il nodo rimane l’assistenza alle punte nuove di zecca, e l’alchimia da trovare (anche nelle rotazioni) tra Mandzukic, Dybala e Morata, molto diversi, forse intercambiabili. Prima la Juve segnava quasi in un modo solo, ora dovrà scoprire orizzonti mai percorsi. Con almeno un altro acquisto forte, però.