Paolo Griseri, la Repubblica 13/8/2015, 13 agosto 2015
LO SHOPPING DEGLI AGNELLI IN FORMATO GLOBALE –
Gli Agnelli vanno nel mondo e globalizzano le loro tradizionali partecipazioni. E’ come se in una estate avessero preso il vecchio bonsai di Ifi-Ifil (le loro finanziarie del secolo scorso) e avessero deciso di trasformarlo, con la nuova Exor, in albero di dimensioni reali, o almeno proporzionate al mercato globale. Fuga dall’Italia o semplice adeguamento alle nuove grandezze dell’economia?
Vista nei suoi aspetti particolari, la lunga marcia di John Elkann è cominciata nel 2009, nell’auto, con l’operazione Fiat-Chrysler. Oggi quel gruppo integrato vende circa 5 milioni di automobili e si propone di arrivare a 7 nel 2018. Ci riuscirà? Fallirà? E’ un fatto che già nel 2015 i volumi di vendita di Fca sono doppi rispetto a quelli della vecchia Fiat. In un mercato in cui le dimensioni sono decisive, un’azienda tutta italiana non ci sarebbe più.Nemmeno se avesse deciso di puntare tutto, da sola, sui modelli di fascia alta. Per trasformare la vecchia Fiat in Bmw sarebbero comunque stati necessari molti soldi che gli Agnelli non avevano.
Il secondo passaggio è molto più recente. La ristrutturazione della parte finanziaria delle partecipazioni - con la vendita di Sgs e Cushman& Wakefiled (immobiliare) per acquistare gli americani di PartnerRe - si è conclusa a luglio. E’ costata 7 miliardi di dollari e una battaglia durissima con il board della società, inizialmente contrario all’operazione. Aver vinto quello scontro è costato molto caro ad Exor perché per raggiungere l’obiettivo sono stati necessari diversi rilanci sul prezzo. Alcuni analisti si sono chiesti se ne valesse la pena. Certamente la battaglia è stata utile per far entrare gli Agnelli da vincitori nei salotti che contano nella finanza americana.
Al confronto con l’operazione assicurativa, quella di ieri in Economist vale molto meno. L’investimento in Partner-Re è 17 volte quello che ha consentito agli Agnelli di diventare il primo azionista del settimanale inglese con il 43 per cento. Il significato simbolico è però importante: governando Economist i torinesi si siedono con una posizione di forza (e non con il chip del 5 per cento che avevano prima) accanto a Rothschild e altre importanti famiglie della finanza. Ripetono su questa sponda dell’Atlantico quel che hanno fatto un mese fa alle Bermuda. E, di fatto, trasformano il palazzo londinese dell’Economist di Saint James street, già oggi sede delle attività fiscali di Fca, nel loro quartier generale finanziario.
Il settimanale inglese è in lieve ma costante flessione di ricavi: dal 2012 a oggi è passato da 362 a 328 milioni di sterline mentre gli utili sono tornati a salire.Exor conta di sfruttare gli effetti del passaggio dalla carta al digitale, che sull’informazione finanziaria sembra dare buoni risultati.
Insomma, la simmetria sembrerebbe completa: Fca sta alla vecchia Fiat come PartnerRe sta a Sai (e poi a Toro) e come Economist sta alle proprietà editoriali italiane della Famiglia. Più che un allontanamento dall’Italia, il disegno sembra essere quello di inserire gli asset italiani in una torta molto più grande. Dove, inevitabilmente, conteranno meno di un tempo perché saranno una parte e non il tutto.
Nei prossimi mesi, quando sarà conclusa la quotazione di Ferrari e si deciderà sul grande merger che Marchionne intende realizzare con Gm (a settembre al Salone di Francoforte Mary Barra potrebbe dire un nuovo «no»), avremo finalmente gli elementi per rispondere: quanto peserà la Penisola nel scelte future degli Agnelli?