Marco Marzano, il Fatto Quotidiano 13/8/2015, 13 agosto 2015
IN FUGA DALLE PARROCCHIE, SEDOTTI DA SANTONI E SETTE: COSA RESTA DEI CATTOLICI
La Chiesa Cattolica è una delle grandi passioni della mia vita, perlomeno sul piano intellettuale, dello studio, della ricerca. Ma forse non solo. Una passione profondamente ambivalente dal momento che, sin dalla prima adolescenza, non credo più in Dio e che sono tutto fuorché un ateo devoto, non essendo nemmeno lontanamente affascinato dalla triade Dio-Patria-Famiglia che tanto seduce i reazionari alla Giuliano Ferrara. Al contrario semmai, del cristianesimo mi affascina la potenza rivoluzionaria e anticlericale del linguaggio evangelico, il profilo “sovversivo” di Gesù, la natura scandalosa, radicale e anticonformista di molta parte del suo messaggio. Sovente imputo questa ambiguità all’ambiente familiare nel quale sono cresciuto, con un padre rigorosamente ateo e miscredente e una madre donna di parrocchia e catechista, devota anche se non codina, piuttosto direi “cattolica adulta”, partigiana, ma ragionante e tollerante. Di mio padre penso di aver fatto mia la vena anarcoide, la feroce severità critica verso l’istituzione e verso l’ipocrisia perbenista. Da mia madre credo di aver preso la fascinazione verso l’utopia comunitaria, la passione per il “noi”, per le imprese collettive e insieme per il rigore morale assoluto, per una sorta di religioso “comunismo del quotidiano”, ascetico e frugale.
Magia, pellegrini e superstizioni
Pur non sedendomi più sui banchi di una chiesa ormai da alcuni decenni, ho iniziato già nei primi anni Novanta a occuparmi di cattolicesimo. Di cattolicesimo e politica per la precisione. Ho scritto un primo libro e, dopo una pausa di alcuni anni, dalla metà dei Duemila ho ripreso a frequentare la Chiesa e non ho più smesso sino ad oggi. Ho iniziato con un pazzesco viaggio-pellegrinaggio organizzato a Medjugorje, un pacchetto turistico comprato “al buio”, senza sapere quasi nulla della meta, realizzato negli ultimi giorni del 2005, tra Natale e Capodanno. Lì ho scoperto la presenza di un “cattolicesimo magico” (come ho poi intitolato il libro che si apre proprio con il racconto di quel viaggio), popolare, direi anche discretamente superstizioso e, almeno in apparenza, extra ecclesiastico, non istituzionale, un mondo incantato popolato da santoni, veggenti, apparizioni, possessioni demoniache, esorcismi, guarigioni miracolose. Un universo simbolico che, secondo le previsioni di tanti, avrebbe dovuto scomparire con l’avvento della modernità, degli aeroplani, degli ospedali, della cultura tecnica e scientifica e che invece è ancora tutto lì, in quel paesino incastonato tra i monti dell’Erzegovina, ma anche in mille altri luoghi, soprattutto nel nostro Paese (pensate solo a San Giovanni Rotondo!). Qui da noi quella forma di religiosità occupa uno strato psico-sociale collettivo profondo, che sembra non estinguersi mai, soprattutto ovviamente tra i ceti popolari, e non solo del Mezzogiorno.
Proprio a Medjugorje, conobbi molti militanti del Rinnovamento dello Spirito, un’organizzazione carismatica di origine nord americana che del cattolicesimo magico ha fatto il cuore della sua vita comunitaria.
Nell’agosto del 2007 riuscii, per un caso fortunato, a farmi invitare da un gruppo di militanti del Rinnovamento ad una sorta di corso di formazione all’evangelizzazione (così veniva definito dagli organizzatori), in una rinomata località turistica del bresciano. Lì assistetti a un o tripudio di spiritualità miracolistica e spettacolarizzata, con “fratelli” e “sorelle” che improvvisamente parevano posseduti da uno spirito profetico che li faceva scimmiottare lo stile di Gesù Cristo riportato nei Vangeli, o che esplodevano in pianti e urla liberatori nel corso di misteriose preghiere di guarigione. Accanto a questi, vidi episodi decisamente più “mondani” e ordinari, come la passione di alcuni “fratelli” per gli abbracci carnali, e non solo a scopo di guarigione degli afflitti. In quegli incontri anche la carne, e non solo lo spirito, esige la sua parte.
La fede inquieta piena di dubbi
Mi chiesi molte volte che cosa avesse a che fare tutto quello che avevo visto nell’anno e mezzo appena trascorso con il cattolicesimo di mia madre, così tormentato, inquieto, pieno di dubbi. Un “cattolicesimo dei punti interrogativi” come quelli che scorsi anni fa sfogliando le pagine della copia della Bibbia che le era appartenuta. Un cattolicesimo problematico, intriso di amore per il prossimo e insieme di volontà reale di dialogo con i diversi da sé, una religiosità priva di quell’ansia di convertire gli infedeli che sembra essere la principale preoccupazione dei carismatici e di altri settari. Un cristianesimo senza effetti speciali o ricette facili per la felicità eterna quello di mia madre; il cattolicesimo della riflessione intelligente sulla Bibbia, dell’autonomia delle coscienze. La religiosità degli ambienti parrocchiali, perlomeno di quelli che avevo conosciuto negli anni Settanta: spesso un po’ confusionari e casinisti, ma mai dogmatici, né aggressivi o intolleranti.
Io me ne ero allontanato, ma non l’ho mai considerarlo un ostacolo da rimuovere per costruire una società migliore. Come questo cristianesimo potesse stare insieme, nella medesima organizzazione, con i riti magici dei Rinnovatori dello Spirito e con tutti quelli, altrettanto fantasiosi e originali, delle altre “sette cattoliche” (ciellini, neocatecumenali, etc.), ecco questo rimaneva per me un mistero profondo. Un enigma non risolto dalle migliaia di articoli di giornale dedicati in questi decenni esclusivamente ai pontefici e semmai, talvolta, a qualche eminente cardinale né dalle analisi sociologiche in circolazione che a queste contraddizioni non facevano mai cenno e che riferivano al contrario di un cattolicesimo italiano in piena salute, felicemente impegnato in una vittoriosa battaglia contro la secolarizzazione e la scristianizzazione del Paese.
Proprio per soddisfare questa curiosità, per capire meglio dove stesse l’inghippo, iniziai, prima timidamente e poi a tempo pieno, un’inchiesta a tappeto sul cattolicesimo italiano. Dopo un anno e passa di indagini approfondite, dopo aver sentito centinaia di persone, visitato innumerevoli luoghi, assistito a una teoria infinita di riti, rituali e cerimonie, riemersi con l’immagine piuttosto nitida che contraddistingue il mio libro “Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della Chiesa in Italia”. In quel ritratto, il nostro appare come un Paese nel quale la secolarizzazione galoppa esattamente alla stessa velocità del resto d’Europa e le chiese, disertate in modo sempre più clamoroso dai giovani, si svuotano a un ritmo sostenuto; il clero, sempre più ridotto nei ranghi, invecchiato e demotivato, fatica, in molti casi, a resistere alla depressione, mentre le nuove sette (appunto carismatici, neocatecumenali, ciellini, per citare solo i gruppi più importanti) avanzano senza posa, conquistano parte dei territori lasciati liberi dalle parrocchie insieme ad altri nuovi, impongono ovunque la loro mentalità chiusa, rigida, intransigente, di passiva e stupida subalternità al volere del capo supremo.
Il libro si concludeva con una prognosi severa: se le cose non cambiano, se le gerarchie cattoliche continuano, da una parte, a ignorare scientemente il declino del cattolicesimo parrocchiale considerandolo inevitabile e, dall’altro, ad incoraggiare la crescita dei movimenti settari interni, presto saremo di fronte ad un cattolicesimo che assumerà l’inedita fisionomia di una “chiesa settaria”, cioè di una collezione di sette (tutte tra loro diverse, anche sul piano simbolico, liturgico, del linguaggio religioso), capitanata da un papa romano che le rappresenterà nello spazio pubblico, oscurando consapevolmente molte delle loro differenze, sopprimendo, con il suo carisma personale e la sua visibilità mediatica, le tante contraddizioni che un’organizzazione a comportamenti stagni invariabilmente genera ed ospita al suo interno. In questo scenario, il cattolicesimo perderebbe ogni capacità di parlare con efficacia all’esterno, ogni possibilità di contribuire al bene comune e al progresso civile generale, in definitiva ogni traccia di civiltà.
L’involuzione voluta da Giovanni Paolo II
Il principale sostenitore implicito di questa evoluzione (o meglio involuzione) era stato naturalmente Karol Wojtyla. Il suo successore Ratzinger ne aveva ispirato molte posizioni e proseguito, una volta asceso al soglio di Pietro, tanti indirizzi. Un anno dopo la pubblicazione del mio libro però un nuovo capo supremo si è insediato in Vaticano. Un tipo decisamente diverso dai suoi due ultimi predecessori, da moltissimi punti di vista. La domanda logica che tanti di noi si pongono è: cosa può fare papa Francesco per cambiare la situazione del cattolicesimo, per invertire la rotta che conduce al definitivo approdo alla “chiesa settaria”?
Cominciamo col dire quel che un papa non può fare: non può invertire la tendenza profonda alla secolarizzazione, cioè al distacco crescente di tutti noi dalla tradizione religiosa ereditata dai padri, non può ricostruire la “catena di memoria tra le generazioni” definitivamente interrottasi per effetto dell’individualizzazione e della libertà religiosa. Questo compito non è realizzabile da un solo individuo, ma dipende da più ampi e generali processi storico-sociali. Quindi Francesco non può, contrariamente a quello che forse tanti oggi pensano attribuendogli improbabili virtù taumaturgico-carismatiche, tornare a riempire le chiese, impedire che i cattolici diventino, nel nostro contesto almeno, un evangelico “piccolo resto”, una minoranza tra le altre, seppure importante.
Quel che invece il pontefice romano può fare è cambiare radicalmente la risposta che la Chiesa fornisce al processo di secolarizzazione, ovvero può cercare di far cessare quell’atteggiamento difensivo che considera ogni cambiamento sociale un vulnus all’identità della Chiesa, una minaccia alla sua missione evangelizzatrice. Quel che Francesco può fare, in altri termini, è trasformare davvero la Chiesa in un “ospedale da campo”, in un luogo dove per tutti, credenti e non credenti, obbedienti e critici, sicuri e dubbiosi, sia possibile essere accolti, dialogare, confrontarsi. Un luogo di civiltà e di progresso. Per tutti. E al di là dei numeri degli arruolati, dei convertiti, degli intruppati.
Per far questo però ci vogliono riforme autentiche, decisioni che lascino il segno nella Chiesa a venire, nel mondo dopo di noi, nella Chiesa che verrà dopo Francesco. I papi passano, le riforme restano.
E, per come è fatta la Chiesa, in virtù del suo assetto rigorosamente monarchico, è al papa e solo al papa che compete la scelta di cambiare. Tutti ricordiamo la straordinaria umanità del “papa buono” Giovanni XXIII, ma il suo lascito più importante è consistito, senza alcun dubbio, nella decisione di convocare il Concilio Vaticano II. Quell’evento è, a distanza di più di mezzo secolo e al di là delle riforme che ha prodotto (invero soprattutto quella della liturgia), una miniera di temi, simboli e linguaggi riformatori, ancora utilissimi per le forze che spingono la Chiesa verso il suo rinnovamento interno.
Nel frattempo la secolarizzazione ha fatto, almeno in Europa, enormi progressi, ponendo alla Chiesa sfide inedite e radicali, che essa non può più evitare di affrontare se non vuole correre il rischio di diventare una setta chiusa e nostalgica, di essere abbandonata dalle sue energie migliori, dalle sue componenti più vive, riflessive e mature. In una parola, dai suoi laici più adulti.
Al presente, i terreni delle auspicabili riforme riguardano naturalmente in primo luogo la condizione di chi oggi soffre perché escluso dalla possibilità di una piena adesione alla comunità. E quindi i divorziati risposati credenti e gli omosessuali cattolici. Ma la necessità dei cambiamenti coinvolge anche le popolazioni strutturalmente ormai distanti dalla Chiesa (ad esempio i giovani) e il clero, attraversato da una crisi profonda, non solo numerica.
L’inchiesta sulla Chiesa e sul Paese
Tutti questi argomenti saranno al centro dell’inchiesta che inizia oggi su queste pagine. Cercheremo di capire come sta cambiando e come può cambiare la più importante istituzione religiosa (e non solo) del nostro Paese. Lo sforzo sarà comune perché voi lettori potrete reagire ai miei contributi settimanali inviando le vostre lettere, commentando, dissentendo, esprimendo la vostra opinione. Ogni mio pezzo inizierà con una storia, una storia vera, di una persona normale che ho incontrato in questi lunghi anni di frequentazione del mondo cattolico. Spero che le storie che riporterò vi inducano a scrivere la vostra, a raccontare, discutere, argomentare. Per far sì che il cambiamento che la Chiesa attende sia davvero, almeno su un piano sostanziale e dei contenuti, un’operazione collettiva, che non sia appannaggio di pochi o addirittura di uno solo, e che invece faccia seguito a tanti dibattiti come quelli possibilmente innescati da un’inchiesta come questa.
In previsione del Sinodo, la Chiesa italiana avrebbe dovuto avviare un grande confronto sui temi importantissimi che si discuteranno a ottobre. Non mi sembra che sia avvenuto. Nella storia, i giornali sono stati talvolta luoghi importanti di cambiamento sociale, spesso supplendo alla debolezza di altre istituzioni. Speriamo che sia così anche in questo caso. Buon viaggio, dunque! E a presto.