Alvaro Enrigue, La Lettura - Corriere della Sera 9/8/2015, 9 agosto 2015
IL GUERRIGLIERO DELLA COCAINA
La Sierra Madre Occidentale, l’impenetrabile cordigliera da cui Joaquín «El Chapo» Guzmán Loera ha dato origine alla propria leggenda e dove con ogni probabilità si è di nuovo nascosto, occupa un posto particolare nell’immaginario degli abitanti del Nord America. C’è qualcosa nella bellezza abissale di quel territorio, nello spirito di sopportazione dei personaggi popolari che sono usciti da là, che fa sì che uno dei pochi punti di totale accordo tra i più di cinquecento milioni di abitanti delle terre del Nafta, il North american free trade agreement, sia l’attrazione verso quel luogo e verso i fuggiaschi che lo hanno scelto per opporsi alla vita ordinata e produttiva imposta dagli industriosi valori capitalisti che reggono l’esistenza di messicani e statunitensi dalla fondazione delle loro nazioni.
Nell’Ottocento e nel Novecento, l’indiano Geronimo e Francisco Pancho Villa fecero ammattire gli eserciti di Messico e Stati Uniti dai loro nascondigli sulla Sierra Madre Occidentale. Fu là che esercitarono nel migliore dei modi quello straripante narcisismo che permise loro di convertirsi in leggenda, trasformando le proprie fughe e i propri assalti in uno spettacolo internazionale.
Nel marzo del 1916, Pancho Villa attaccò la città di frontiera di Columbus, nel sud degli Stati Uniti, e riuscì a resistere a un’operazione militare su vasta scala dell’esercito americano fino al febbraio dell’anno successivo. Il generale John J. Pershing lo inseguì al comando di quattromila uomini e utilizzando la tecnologia più all’avanguardia dell’epoca. La spedizione di Pershing fu una delle prime operazioni militari in cui si utilizzarono ricognizioni aeree e nella quale le truppe vennero trasportate via camion. Accanto al dispiego di tanta modernità, però, Pershing sapeva attingere anche a metodi più classici. Il suo corpo militare comprendeva 25 cacciatori apache che avevano il compito di localizzare i luoghi dai quali Villa, e il pugno di uomini che lo accompagnava, organizzarono uno dopo l’altro gli umilianti attacchi guerriglieri da cui il condottiero uscì sempre vincitore. Pershing non andò neanche vicino a catturare Villa; e l’unica cosa che gli permise di non cadere nel ridicolo fu che, dopo undici mesi di insuccessi, ricevette l’ordine di partire per l’Europa, e per la Prima guerra mondiale. Villa, ovviamente, non fu mai estradato.
Trent’anni prima, ancora sulla Sierra Madre, Geronimo aveva resistito per un anno agli attacchi congiunti degli eserciti statunitense e messicano, e si era arreso soltanto nel marzo del 1886. Si arrese a un gringo, non a un militare messicano, perché se i soldati di Sonora lo avessero acciuffato, lo avrebbero impiccato sul posto. Il generale George Crook ebbe la fortuna di trovare in subbuglio l’accampamento degli Apache Chiricahua perché in quel momento i guerrieri stavano attaccando una fattoria a Sonora. Sequestrò le loro riserve di cibo e le loro famiglie. Al rientro Geronimo e i suoi uomini – «i migliori 36 esemplari di essere umano che abbia mai visto in vita mia», disse di loro il portavoce del comando gringo – accettarono di arrendersi, ma con i termini a metà tra il picaresco e il geniale. Si sarebbero consegnati soltanto se fosse stato permesso loro di auto-deportarsi. Il generale Crook, che aveva un disperato bisogno della vittoria politica che la cattura di Geronimo avrebbe significato, accettò. I Chiricahua rispettarono la parola data, ma ci misero così tanto ad arrivare alla frontiera che, quando la raggiunsero, Crook era già stato rimosso dal proprio incarico. Per di più, Geronimo si presentò negli Stati Uniti con 300 capi di bestiame rubati a Sonora, con i quali, disse, progettava di fondare l’allevamento della riserva. L’episodio generò un incidente internazionale imbarazzantissimo per il governo di Washington.
I grandi banditi della Sierra Madre hanno la capacità di dominare l’immaginario dei propri contemporanei. Uniscono le fantasie che ci rendono insonni alle paure che ci svegliano la notte. Possono contare sul dono di trasformare in spettacolo le proprie azioni e lavorano sulla nostra memoria collettiva: abbiamo paura degli incubi non per il loro contenuto, ma perché ritornano e ritornano e ritornano.
Città del Messico, New York, Tijuana e Los Angeles sono tutte metropoli abbastanza grandi, diverse e corrotte da essere in grado di generare campioni del crimine; ma i veri banditi, quelli che ci affascinano da generazioni, si collocano in un territorio mitico e impenetrabile a tutti gli altri. E questa, mi pare, è proprio la carta che si sta giocando «El Chapo» Guzmán.
Dubito che riusciranno ad acchiapparlo se sceglierà di nascondersi sulla Sierra Madre, come immagino abbia già fatto. La forza pubblica non ha mai catturato nessuno che si sia rintanato lassù. Se è fuori discussione che le sue fortune e le sue disgrazie ci spaventeranno e ci affascineranno ancora per molto tempo, tuttavia «El Chapo» non possiede né il peso sociale né la lista di rivendicazioni politiche di Pancho Villa o di Geronimo; non è sorretto da un’ideologia neoliberale diversa dall’arricchimento rapido — che condivide con gli agenti del governo e delle banche internazionali. Guzmán è il loro gemello.
Nella città di Culiacán – capitale di Sinaloa, lo Stato in cui «El Chapo» è nato – si vendono magliette con la sua faccia stampata sopra, come fosse il Che Guevara dell’ipercapitalismo. Quando venne arrestato per la seconda volta, nel febbraio del 2014, proprio in quella stessa città incassata tra le pendici della Sierra Madre dal lato dell’Oceano Pacifico, ci furono marce e manifestazioni. Si dice spesso che l’attaccamento popolare ai narcotrafficanti provenga dalla mancanza di opportunità per i poveri del Messico, che vedono in loro la strada più rapida per il successo economico. Ma la verità è che nella fotografia più famosa di quelle manifestazioni che reclamavano la liberazione del «Chapo» alla stregua di un eroe, si vede una donna di ceto alto reggere un cartello su cui si legge: «“Chapo”, dammi un figlio». Lo scrittore Carlos Velázquez – una delle voci giovani più raffinate e riconosciute nel nord della nazione – tra l’ironico e l’ossequioso ha detto che Guzmán è «l’uomo più intelligente del Messico». A Badiguarato, il paese sulla Sierra in cui Guzmán visse parte dell’adolescenza, le autorità si battono per scrivere il suo nome su uno dei muri dell’edificio che ospita l’elenco dei cittadini celebri. L’ammirazione che risveglia non è circoscritta soltanto alle classi a cui il sistema educativo del Paese non presta ascolto. È qualcosa di più inquietante e profondo, qualcosa che ha a che vedere più con quello che ci affascina dei western di Sergio Leone che con l’amministrazione della giustizia.
Guzmán Loera non è l’unico peso massimo del crimine uscito dal carcere durante l’amministrazione del presidente Enrique Peña Nieto. Caro Quintero, il più grande boss del Messico nella prima metà degli anni Ottanta, ha lasciato la prigione pochi mesi fa grazie a una manovra legale alquanto sospetta, con cui un giudice sconosciuto ha scoperto una falla processuale all’interno di un procedimento chiuso vent’anni prima. Altri narcotrafficanti sono fuggiti con l’aiuto di vari commando che hanno assalito le prigioni a pistolettate, come pirati. «El Chapo», però, è diverso: i suoi gesti pubblici reclamano un palcoscenico, pretendono l’ilarità di un Paese immerso in una crisi morale così profonda che ha ben poche occasioni per rilassarsi con una bella risata. Non dobbiamo dimenticare che gran parte dell’impero di Guzmán è stato accumulato contrabbandando cocaina dentro lattine di peperoncini sottaceto che per anni sono passate sotto il naso della polizia degli Stati Uniti con l’etichetta «Peperoncini La Comadre». «La comadre», nello spagnolo che si parla in Messico, è la moglie del Padrino.
La pubblicazione del video della seconda fuga, l’11 luglio scorso, da una prigione di massima sicurezza è, a oggi, il più efficace e universale gesto di comicità involontaria di un governo che si occupa in particolare di problemi interni. Nella cella numero 20 del carcere di Altiplano sono passate le undici di sera, quando il boss si allaccia le scarpe e si passa la mano tra i capelli, come se stesse per andare a ballare. Cammina qualche metro in direzione della doccia, si china, e scompare. Il pubblico, ovviamente, applaude: è un numero di magia dalla coreografia perfetta.
C’è, però, poco da scherzare con la sete di sangue del boss. La nave dei suoi affari lascia dietro di sé una scia di corpi mutilati. Da quando ha preso possesso di Ciudad Juárez, la metropoli di frontiera in cui è ambientato 2666 di Roberto Bolaño, nonché uno dei maggiori punti d’accesso della droga negli Stati Uniti, una comunità prospera si è trasformata in un paese deserto da Far West nordamericano. «El Chapo» è uno spudorato assassino dotato di una notevole capacità di insinuarsi nell’immaginario contemporaneo, proprio attraverso quelle azioni che i mezzi di comunicazione trasmettono e rilanciano. La generazione dei politici che ha deciso che l’amministrazione pubblica non dipende dalla realtà, ma dalla sua proiezione in bit televisivi, vede in Guzmán il più fotogenico dei suoi nemici storici, un rivale con un senso della teatralità particolarmente sviluppato. La sua prima evasione da un carcere di massima sicurezza avvenne in un carrello della biancheria sporca. Aveva comprato così tante guardie che avrebbe potuto uscire camminando, ma preferì citare il musical Annie: la bambina povera che divenne milionaria. «El Chapo» è un criminale che inferisce colpi brutali, ma sa anche stupire con numeri da circo.
Sappiamo che nacque in un paesino sperduto chiamato La Tuna, sulla Sierra Madre Occidentale messicana, un posto ancora oggi inespugnabile. Sappiamo i nomi dei suoi genitori e dei suoi figli, sappiamo quale parte del traffico di droga negli Stati Uniti gli compete, e a quanto ammonta la sua fortuna – alcuni milioni di dollari, secondo la stima della rivista Forbes –, ma non sappiamo con certezza quando è nato: il criminale più ricercato del mondo non ha una data di nascita, non è registrato all’anagrafe. Dal punto di vista legale è un fantasma, un cittadino mai esistito. Può darsi che gli venga da questo la propensione ad attraversare i muri, a scomparire davanti agli occhi di tutti.
Il più grande trafficante di droga del mondo è nato in una famiglia di contadini poveri. Il padre coltivava papaveri in piccole quantità, che poi Guzmán raccoglieva assieme ai fratelli. Fece il suo ingresso nel cartello di Guadalajara spacciando marijuana e dimostrando di essere di un’efficienza brutale: se qualcuno della sua piccola organizzazione commetteva un errore, all’alba veniva ritrovato morto. Scalò l’organizzazione fino a diventare l’autista del capo, Félix Gallardo, l’uomo che inondò gli Stati Uniti di cocaina negli anni Ottanta. Nel 1985 Guzmán fondò il cartello di Sinaloa con il suo vecchio capo, El Güero Palma – attualmente detenuto negli Stati Uniti – e con il suo socio storico – tuttora in libertà – «El Mayo» Zambada. Da lì mise a ferro e fuoco il nord-ovest del Messico e il corridoio che va da Tijuana a Ciudad Juaréz: mille chilometri di frontiera con gli Stati Uniti, il più grande consumatore di droga del mondo. Lo arrestarono in Guatemala, nel 1993, e fuggì dal penitenziario di Puente Grande circa un decennio più tardi. Lo catturarono di nuovo nel 2014, a Mazatlán, nello Stato di Sinaloa, in un hotel. Qualche giorno prima era stato quasi acciuffato nella sua casa di Culiacán, ma era riuscito a scappare attraverso un tunnel che si apriva azionando un meccanismo che sollevava la vasca da bagno e che conduceva a un passaggio sotterraneo e a una motocicletta.
La passione del «Chapo» per l’ingegneria sotterranea sfiora il mito: la gente dice che lungo la frontiera di Mexicali c’è una città sotterranea che lavora muovendo droga per lui. Immagino che non sia vero – la leggenda sembra più vicina a un fumetto di Batman che ai fascicoli giudiziari associati a Guzmán –, eppure ogni tanto i poliziotti messicani e americani scovano dei posti da cui spunta fuori un tunnel scavato dagli ingegneri del «Chapo». Non sono corridoi per sfuggire alla giustizia, bensì gallerie da cui passano camion da trasporto.
La storia del «Chapo» sarebbe quella dell’ascesa di un qualunque boss altrettanto dotato di chiarezza strategica, creatività imprenditoriale e sangue freddo, se non fosse per quel marchio di fabbrica che si fissa nella mente di chi lo vede sopravvivere a ogni battaglia. Lui è il signore del sottosuolo, di ciò che spunta e scompare da grotte che nessuno conosce. Il padrone dell’inferno.
Non so se la sua indubbia propensione alla celebrità sia cosciente oppure no, ma non si fa fatica a rintracciare nelle sue azioni più spettacolari la volontà di diventare un’icona, di strizzare l’occhio alla cultura popolare per scolpirsi nella memoria delle persone. Guzmán incarna quello che guardiamo di nascosto, quello che è assente dai registri ufficiali e per questo ci affascina e ci seduce, la parte oscura di un Paese che all’improvviso riappare nel nostro immaginario come qualcosa di indomabile e di misterioso. «El Chapo» rappresenta le nostre fantasie su un Messico rozzo che non vuole arrendersi alla razionalità occidentale e contro cui combattiamo dal 1500, da quando il Paese si è uniformato ai modi della cultura europea. È il fantasma di un cupo desiderio.
(traduzione di Marco Amerighi)