Gianluca Paolucci, La Stampa 12/8/2015, 12 agosto 2015
«PECHINO NON RIESCE PIU’ A GUIDARE LA CRESCITA». E L’EUROPA TEME LA FRENATA
«Nel dubbio, vendi». Se la mossa della Banca centrale cinese ha diviso economisti e osservatori su motivazioni e possibili conseguenze, il mercato ha preso da subito una direzione chiara.
I mercati
La decisione di Pechino ha effetto immediato su chi esporta in Cina, dove i beni pagati in dollari e euro saranno più cari. Così il primo effetto della decisione cinese lo si è visto sui mercati europei dove sono stati venduti i titoli del lusso - a Milano tutti in forte calo, da Ferragamo (-5,50%) a Moncler (-3,2%), Tod’s (-3,18%), Luxottica (-2,74%) e Yoox (-2,47%), a Parigi vanno male Lvmh e Kering. Nuovo tonfo anche del petrolio, con il Wti che a New York è scivolato sotto i 43 dollari al barile prima di recuperare nel finale di seduta, e delle materie prime.
Il pressing del Fmi
I timori più a lungo termine riguardano ancora il rallentamento della crescita cinese. Timori riaccesi dai dati deludenti sull’export, che con la svalutazione dello yuan potrebbe riprendere slancio. E timori particolarmente sentiti in Europa, dove un nuovo scossone potrebbe mettere a rischio la già fragile ripresa. Non a caso, con l’indice di fiducia tedesco al di sotto delle aspettative, Francoforte è stata la peggiore tra le Borse europee, con un calo del 2,68%. Ma Tao Wang e Donna Kwok, economisti di Ubs, sottolineano invece l’effetto «normalizzatore» della decisione di ieri, che arriva dopo la pressione del Fondo monetario per rendere più «di mercato» l’andamento della valuta cinese. La Banca Popolare Cinese ha infatti detto, per giustificare la decisione, di voler andare in questa direzione per aprire il proprio mercato valutario e arrivare gradualmente a «unire» le valutazioni interne e estere dello yuan.
«Il timing di certo è in linea con gli sforzi attuali (del governo cinese e della banca centrale, ndr) per accelerare ulteriormente la crescita nei settori non finanziari», sottolinea invece Brian Jackson, economista di Ihs Global Insight. Che peraltro si dice comunque d’accordo con chi sottolinea la volontà cinese di rendere più di mercato l’oscillazione della propria valuta.
«È un gioco a somma zero - dice invece Bill McQuacker di Henderson Global Investors - ciò che va bene per la Cina va male per tutti gli altri». I problemi maggiori saranno per l’inflazione globale, con prezzi più bassi dei beni dell’industria manifatturiera e delle materie prime che «alimenteranno le pressioni deflazionistiche già esistenti», continua McQuacker.
La «guerra delle valute»
È forse il timore maggiore: quello di una «guerra delle valute» che spinga le altre economie emergenti a svalutare a loro volta per recuperare competitività, innescando una spirale ribassista che potrebbe avere effetti tremendi sull’economia globale. Facendo tornare indietro la Fed nella sua annunciata politica di rialzo dei tassi. È il rischio che vede ad esempio Stephen Roach, già a capo di Morgan Stanley in Asia. Chi non crede alla guerra delle valute sottolinea il deciso apprezzamento dello yuan, proseguito per quasi 10 anni fino a ieri e ancora probabilmente sopravvalutato.
Ma, sottolinea Mohamed El-Erian, ex gestore di Pimco e attuale consulente economico di Allianz e presidente del Barack Obama’s Global Development Council in un intervento su Bloomberg, la decisione «segnala che una delle più grandi e più importanti economie a livello sistemico non è più nella posizione di giocare il ruolo di locomotiva per la crescita globale».