Gabriele Romagnoli, la Repubblica 9/8/2015, 9 agosto 2015
LA SUITE DI BLED DOVE RE E DESPOTI FECERO CHECK OUT DALLA STORIA
Ceausescu, despota di Romania, si coricò senza tirare le tende, dopo aver messo una guardia fidata alla porta e una sul terrazzo. Hailé Selassié, imperatore d’Etiopia, conosciuto come il Negus, faticò a dormire e si svegliò sudato, gettando lontano il cuscino, come avesse presagito che un giorno sarebbe stato soffocato nel sonno. Kim Il sung, dittatore nordcoreano sempre in bilico tra la follia e il ridicolo, fece annotare da una schiera di fedeli che lo seguivano come cani tutto quel che toccava, ordinò di comprarlo e farselo spedire in patria, incluse le lenzuola, il tappeto, la biancheria da bagno. E Tito, il maresciallo Tito, quando riprese possesso della suite, delle sue stanze e degli ancor più numerosi bagni, si lasciò cadere sul divano e guardò, oltre la finestra, il lago blu e l’isola verde al centro. Lui non dormiva lì, anche se quello era e ancora è l’appartamento che porta il suo nome. Lo prestava agli altri, potenti come lui in qualche altrove, perché ci vedessero quel che lui aveva visto. Poi riposassero, finché potevano, in pace.
Ora questa residenza è un albergo a cinque stelle. Nella brochure ci sono immagini idilliache e altre storiche, paesaggi e murales. A colpirmi di più però è una fotografia scattata nella sala del tè dove Tito riceveva i suoi pari. Sul tavolo di noce è posata una bottiglia di brandy, il tappo è di lato, il liquido brilla nel bicchiere accanto a un posacenere di cristallo su cui è posato un grosso sigaro la cui cenere ancora brucia, esalando fumo. Nella stanza non c’è nessuno. Sono andati tutti via in gran fretta: lo scià di Persia, Nasser e Sukarno. La Storia ha bussato e han dovuto fare il check out.
Bled, in Slovenia, è molto cambiata dai tempi di Tito. Hanno affollato di alberghi una sponda del lago e dappertutto, sulle barchette a remi per l’isola, nella chiesa con ingresso a pagamento, nelle pasticcerie che servono la torta di crema, spopolano due specie: i moscerini e i turisti di Hong Kong, a voi distinguerli. L’investimento pubblicitario su una tv asiatica ha dato frutti: si aggirano in piccoli gruppi cercando le tracce dei Grandi. Difficile trovarne: quelle di Tito sono state spostate altrove, nei musei di Belgrado, questa era una dependance, un luogo fatto per stupire e comunicare. Che cosa? Lo vado cercando invano nelle strade sonnolente della città. È sempre a Vila Bled che bisogna tornare, e sempre con la stessa domanda: perché qui? Che cosa voleva far vedere il leader ai suoi colleghi?
Provo a cercare nelle immagini del murale dipinto da Slavko Pengov che occupa tutte e quattro le pareti di una stanza e descrive, in senso orario, la disfatta tedesca di fronte all’esercito slavo nella seconda guerra mondiale. Pengov era fondamentalmente un pacifista, ma deve aver riconosciuto l’esistenza di una possibile guerra giusta, quella contro il nazifascismo. Ecco allora Tito organizzare le truppe per una battaglia che sarà compassionevole, dove i feriti non saranno lasciati indietro, ma trascinati in salvo a rischio della vita. Ecco i soldati comunisti andare in soccorso delle inermi popolazioni di religione musulmana, tra le moschee in fiamme di un villaggio. Ecco il nemico: ha le sembianze di un italiano spaventato, che si arrende, in ginocchio, mani alzate, chiedendo perdono per le atrocità commesse. Ed ecco un tedesco, che invece è morto, ucciso sul campo, ma non ha durezza, porta gli occhiali sulle palpebre abbassate, forse la notte prima in trincea ha letto un romanzo d’amore. No, non è questo che Tito voleva comunicare, non il coraggio, non l’inflessibilità e neppure la pietà, sebbene postuma. C’è un secondo murale, in sala da pranzo: racconta la ri-nascita della nazione. Non è durata molto. Tito morì nel 1980 a pochi chilometri da qui, a Lubiana. Undici anni dopo la Slovenia pretese e ottenne l’indipendenza, con una vittoriosa guerra durata dieci giorni. Allontanò i serbi, si tenne fuori dalla guerra civile, si aggrappò a un’economia da Svizzera dei Balcani, chiuse la residenza del maresciallo e ne fece questo albergo di lusso che ha nel registro degli ospiti campioni della pallacanestro americana e finanzieri asiatici.
Continuo a cercare tra le stanze, lungo i corridoi, nell’ala dove Tito, malato, si rifugiava con la moglie Jovanka, finché capisco: è sempre stato lì, davanti ai miei occhi. Non è dentro la villa, è alla finestra. Quel che Tito voleva mostrare ai signori della Terra era il lago. Era la sua calma piatta e immutabile. Dormite sereni, non ci saranno tempeste, non è possibile. I poeti amano il mare, i potenti il lago. Tranquilli, nessuna ondata vi travolgerà. Non è un caso che ai funerali di Tito ci fossero quattro re, trentuno presidenti, sei principi, ventidue primi ministri e quarantasette ministri degli esteri, record ancora imbattuto per un capo di Stato. Aveva dato loro l’illusione che nulla potesse cambiare, che potessero specchiarsi nelle acque di un infinito presente. Ma vedete, signori, è la vita stessa che si fa marea e anche uno stagno avrà, prima o poi, il suo tsunami.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 9/8/2015