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 2015  agosto 09 Domenica calendario

FERNANDO BOTERO

SPOLETO
Ora che baffi e capelli sono candidi ha perso l’aspetto autoritario di quand’era brizzolato. A osservarlo, mentre sistema i quarantotto gessi in mostra fino al 20 settembre al Palazzo Comunale di Spoleto, Fernando Botero ha un aspetto familiare con quegli occhi piccoli come punte di spilli da ricamatrice e l’impercettibile strabismo. Sono gli stessi dell’umanità extralarge che dipinge e scolpisce, pingui famigliole in posa e infante obese, tangueros e toreador smisurati, puttane e ballerine e Cristi e Madonne e Luciferi e Gioconde e travestiti barbuti e amanti ignudi e musicisti e giocolieri e cani e gatti e cavalli pasciuti, agilissimi e leggiadri pur nelle elefantiache proporzioni. Ottantatré anni ma, noncurante del clima torrido del primo pomeriggio, scorrazza per le sale dello Spagna, dei Duchi e della Prigione, nel suo completo di lino bianco, charmant come un maturo Rubirosa che la bella moglie (la terza) Sophia Vari (scultrice greca e magrissima) non perde mai d’occhio. «Ho la stessa energia che avevo a quarant’anni. Continuo a lavorare moltissimo e con grande soddisfazione perché il mio scopo è sempre stato quello di dialogare con la gente». Dai finestroni si scorge la lunga fila di visitatori che sfidano la canicola aspettando l’apertura davanti al torso femminile di tre metri e mezzo rivolto verso il Duomo, il bronzo che è l’orgoglio della città del Festival dei Due Mondi. «Oggi vedere che la gente ha una reazione così entusiastica mi riempie di gioia. Ho dedicato all’arte tutta la mia vita», aggiunge commosso l’artista colombiano che ha firmato più di 4500 dipinti a olio, 2500 disegni e almeno 350 sculture. Accarezza quei gessi che sono la versione disinfettata della sua riconoscibilissima opulenza: qui il colore non c’è, è scivolato via, sono pure volumetrie, le anime candide delle sue donne cannone. «Il gesso, l’inizio di qualsiasi opera scultorea, è un calco che rimane sempre all’artista. Nel mio studio di Pietrasanta ne conservo una serie che ora il comune di Spoleto mi ha dato l’opportunità di far conoscere. Non ho mai pensato che il gesso sia un materiale meno nobile di marmo e bronzo. Le sculture mi permettono di creare il vero volume, posso toccare le forme, posso dar loro la morbidezza, la sensualità che desidero».
L’Italia è una delle sue residenze preferite. «Già da trentacinque anni ho un laboratorio a Pietrasanta dove sono state realizzate quasi tutte le opere in marmo. Inoltre qui e in Francia ci sono le migliori fonderie, dunque per me è una posizione strategica. Ma a dir la verità mi sposto incessantemente in cinque o sei posti, Bogotá, Montecarlo, New York e la Grecia. Vivo un po’ dappertutto». Non fu solo una questione di opportunità ad averlo guidato in Toscana. Non sarebbe diventato l’artista figurativo contemporaneo più famoso al mondo se non fosse stato sedotto dalla pittura volumetrica del Trecento e Quattrocento fiorentino. Giotto e Masaccio sopra tutti. «Arrivai in Italia a diciannove anni per frequentare l’Accademia delle belle arti di Firenze», racconta. «Fu uno choc culturale, anche se avevo incominciato a visitare il paese molto prima, quand’ero studente in Spagna e avevo sfogliato La storia dell’arte italiana del Venturi, il libro che mi ha cambiato la vita — diversamente sarei finito a Parigi, che all’epoca era il sogno di tutti gli artisti». In Francia ci sarebbe andato più tardi, dopo quattordici anni vissuti a New York. «Il periodo più difficile della mia vita», sospira. «A Manhattan, un artista figurativo era come un lebbroso in quegli anni in cui trionfava l’espressionismo astratto di De Kooning e Franz Kline. Io, con le mie fortissime convinzioni sulla pittura, non trovai una sola galleria disposta a esporre le mie opere, mi scontrai con una totale indifferenza del pubblico. Fu durissima anche dal punto di vista economico. Un giorno bussò al mio studio un mercante d’arte che aveva una galleria accanto al MoMa. “Ti do dieci dollari per ogni tela”, disse. Ce n’erano in giro una settantina; settecento dollari erano una fortuna per me. Anche in quegli anni difficili rimasi fedele al principio che la grande arte deve essere figurativa».
Erano lontani i tempi in cui lo avrebbero chiamato ad allestire mostre «che non hanno mai fatto neanche i più grandi artisti della storia», veri e propri arredi metropolitani: trentadue sculture monumentali sugli Champs-Élysées, a Parigi, nel 1992, altrettante a Park Avenue, a New York, poi in Piazza della Signoria, a Firenze, al Paseo de la Castellana di Madrid, in Michigan Avenue, a Chicago, e Tokyo, Berlino, Singapore e Stoccolma. Per i galleristi americani era poco più di un caricaturista. L’hanno salvato l’acclamazione popolare e la tenacia con cui ha continuato nel suo percorso sfidando la derisione degli astrattisti. Quasi non riusciva a crederci quando, nel 1966, ricevette la telefonata dal Milwaukee Art Museum. «Era la prima volta che in America avevo un riconoscimento. Ma fu la Germania il paese che abbracciò con entusiasmo le mie opere, dal 1970, quando scoprirono un mio quadro alla Carnegie International ( l’annuale mercato d’arte che ha svelato Magritte e Pollock, Giacometti e Warhol, ndr ) e m’invitarono per cinque mostre in musei tedeschi. A quel punto gallerie e mercanti, anche americani, fecero a gara per avere i miei quadri ». A quelli che ancora minimizzano la portata artistica di Botero ha risposto Juan Carlos, lo scrittore cinquantenne terzogenito dell’artista di Medellín e della prima moglie Gloria Zea: «In realtà lo stile di mio padre non ha nulla a che vedere con quello per cui la gente più lo identifica: l’obesità. Dire che Botero dipinge persone grasse è come dire lo stesso di Paolo Uccello o Rubens, o sostenere che El Greco dipingeva persone magre. La sua proposta estetica consiste nell’esaltare il volume delle forme per conferire magnificenza e plasticità».
Il suo senso di abbondanza suggerisce ottimismo, ma l’artista schiva anche questa definizione. «Lo stile è il medesimo anche quando dipingo le sofferenze dei prigionieri di Abu Ghraib», precisa Botero seduto in un ufficio che il sindaco gli ha messo a disposizione a Spoleto. «Il dovere dell’artista è quello di produrre arte di qualità. Non ha obblighi morali, la denuncia è una libera scelta, anche se a volte la Storia è così drammatica da indurci prepotentemente a un confronto, che sia Guernica o Abu Ghraib». Quando nel 1979 il figlioletto Pedro di cinque anni (avuto dalla seconda moglie Cecilia Zambrano) morì in un incidente stradale in cui anche lui rimase ferito, continuò a dipingerlo e dipingerlo annientando la sofferenza nell’estasi della pittura. «In quei momenti mi ha salvato il lavoro; la catarsi dell’arte», mormora. «È stata un rifugio, una via d’uscita, una fuga culturale, mi ha catapultato in un mondo parallelo, incontaminato, calmo, piacevole. Ecco, il compito dell’artista è quello di riuscire a creare una dimensione che dia alla gente una boccata d’ossigeno e un segno di speranza anche quando il quotidiano è spietato. Ma oggi quasi sempre tradisce questa funzione, è fatta solo per scioccare». È stato lungo, laborioso, faticoso, dice, il percorso dalla volumetria del Quattrocento italiano, da Leonardo, Velazquez, Rubens, Goya, Tiziano, Manet, Bonnard alla florida opulenza del suo segno. «Quel che vede è frutto di una riflessione molto profonda sull’arte e sulla pittura, non c’è maturità senza coerenza. Ho osservato molto, accumulato una grande quantità di informazioni e di immagini, vissuto esperienze speciali: tutto questo confluisce in un lavoro che ha una personalità unica». S’illumina quando parla di Jan Van Eyck (e della sua interpretazione degli Arnolfini), ma sull’arte contemporanea neanche una parola. «Non mi interessa», taglia corto. «L’arte soffre disgraziatamente di una forte decadenza, speriamo in un Rinascimento che non perda di vista quegli elementi che sono rimasti sempre vivi attraverso i secoli — l’artigianalità prima di tutto. La maggior parte dell’arte oggi invece è hands off, come se toccare il prodotto artistico corrispondesse a sminuirlo. Io sono fedele al pennello, alla tavolozza, ai colori. Pittore al cento per cento, ventiquattr’ore su ventiquattro».
Giuseppe Videtti, la Repubblica 9/8/2015