Mario Serenellini, la Repubblica 9/8/2015, 9 agosto 2015
JOHNNY HALLYDAY MEGLIO RESTARE VIVI
[Intervista] –
PARIGI
Già nel titolo il suo nuovo album è un riscatto, una sfida aperta: Rester vivant, restare vivi. Una resurrezione, non solo dal coma lungo tre settimane, sei anni fa, seguito a un complesso intervento chirurgico, ma da una tragica macina di negazioni e rifiuti. Che cominciano da subito. Da quando, settantadue anni fa, il piccolo Jean-Philippe Smet a sei mesi di vita viene abbandonato dal padre attore, e alcolizzato, e la madre, modella, non potendo occuparsene lo affida agli zii a Londra. È da lì che Johnny Hallyday comincia, giorno dopo giorno, a restare vivo. Oggi, nell’asettico camerino della sua «astronave musicale» di Bercy, con gli amici Eddy Mitchell e Jacques Dutronc, Johnny sta scaldando le corde vocali per il tour-maratona attraverso la Francia cominciato il mese scorso e che si concluderà nel febbraio 2016. Sguscia lo sguardo animale di lupo ferito portando alle labbra l’ennesima sigaretta, stavolta elettronica («ho preso il vizio in America, dove fumare è tabù, ma almeno ho recuperato il fiato perduto») e comunque subito contraddetta da mozziconi di Gitanes brune nel portacenere. S’infiamma sul rock, cui ha deciso di dedicarsi in modo esclusivo: «Un rocker è come un pugile: lo fa perché viene da non si sa dove e ha fame. Il rock è testa bassa, è lotta: per me ancora oggi è un combattimento. Non potrei cantare con la stessa foga senza il groviglio di vita da cui sono uscito». Discreto, pudico, Hallyday parla raramente di sé. Stavolta lo fa. Con candore e franchezza disarmanti.
Canzoni in cui ritorna alla sua infanzia o dove celebra le gioie della paternità (“Te voir grandir”, guardarti crescere) sono la resa dei conti verso un passato tormentato?
«In parte. È tutta la vita che sono ossessionato dalla mancanza di un padre. Léon Smet è morto nell’89, era un grande attore e un regista di talento, come mi ha confidato Serge Reggiani che ne era stato allievo alla scuola d’arte drammatica. Ma era soprattutto un alcolizzato, un seduttore inveterato, uno assolutamente ingestibile: ogni volta che trovava lavoro, lo perdeva. Io non l’ho conosciuto, se non nei frangenti più sgradevoli: le fatture da pagare, e poi il declino. Lo trovavano ubriaco fradicio, disteso in mezzo alla strada. È duro da accettare che di lui mi rimanga soltanto questo. Al suo funerale c’ero solo io. Non una donna. Non un amico. Solo io, suo figlio, cui era rimasto un estraneo. Ho percepito allora la solitudine assoluta: che non è vivere soli, ma morire soli».
La solitudine, altro tema feticcio nelle sue canzoni.
«Che dirle. Da bambino non avevo amici, e del resto non andavo a scuola. Mi sono abituato presto alla vita solitaria: non mi ha mai spaventato, anzi, è davvero diventata la mia migliore amica. Il che ovviamente non mi impedisce di essere felice, oggi, con la mia famiglia: con Laeticia e con le nostre due bambine, Jade et Joy, di dieci e sei anni. È per loro che ho cominciato a frenare la mia febbre di nomade e a regalarmi lunghe pause domestiche, nel nostro chalet in Svizzera, a Gstaad, o nella casa di Pacific Palisades a Los Angeles, dove viviamo soprattutto d’inverno. È meraviglioso veder crescere da un giorno all’altro le proprie bambine. Le vado a prendere a scuola, loro con lo zainetto a quadretti, io sulla mia Rolls Royce azzurra. La Harley la lascio in garage, la inforco solo quando voglio perdermi a tutta velocità nelle strade di Los Angeles. Da quando ho sfiorato la morte sento una furiosa voglia di vivere. È bello il sole la mattina quando ci si sveglia».
Avere oggi una sua famiglia è un modo per compensare gli anni di una infanzia senza radici, sballottata qua e là?
«Probabile. Da quando avevo tre anni non ho mai avuto un posto stabile in cui stare. Bisognava ogni volta ripartire, lasciarsi tutto alle spalle. Con mia zia, suo marito e le due figlie, ho girovagato per l’Europa, mascotte al seguito. È da mio zio, che ho preso il mio nome d’arte: era un ballerino americano dall’andatura da cowboy, uomo di grande fascino, si faceva chiamare Lee Halliday. Con un musical, Oklahoma , mi hanno portato in tutta Europa: Spagna, Italia, Danimarca, Germania. A otto anni suonavo la chitarra, avevo imparato da un interprete di flamenco, in Italia, e poi da Andrés Segovia, pensi, al Conservatorio di Ginevra».
Che musica ascoltava da bambino?
«Elvis Presley e tutti i primi rocker, tutta roba che ci arrivava dai genitori di mio zio. E tutti colpi di fulmine. Come il primo film di Elvis che ho visto, Loving you. Così ho iniziato, cantando Elvis nelle basi americane in Francia, loro mi pagavano con i Levi’s, rarissimi all’epoca. Arrotondavo facendo lo strillone di France Soir e rubando dischi alle Galeries Lafayette (non andavo a scuola, ma avevo una cartella molto capace). La domenica, al Moulin Rouge, un po’ ballavo e un po’ cantavo, lo facevo per pagarmi i corsi d’attore. L’attore era quello che avrei voluto fare, non mi aspettavo che il successo mi sarebbe piovuto addosso così presto: quando nel 1961 sono entrato alla Philips ero ancora minorenne. Sono dovuto andare a Grenoble a farmi firmare l’autorizzazione da mia madre. L’ho vista allora per la prima volta. Poi ho dovuto attendere fino a quando avevo cinquantacinque anni per poterla rivedere e poterla chiamarla mamma: fu quando lei, paralizzata, è venuta a stabilirsi da noi a Parigi, l’abbiamo circondata di cure e di affetto, Laeticia e io, e questo mi ha permesso di recuperare tutto il tempo perduto».
Possiamo dunque dire che Johnny Hallyday è nato a diciott’anni?
«Sì, le cose stanno proprio così. Fu a diciott’anni che mi pareva fosse cominciata la mia vita reale. Tutto quello che era accaduto prima l’avevo cancellato con un colpo di spugna. Nessuna voglia di ricordare: soltanto, di tanto in tanto, flash, lame. Ho avuto una carriera che molti mi invidiano, sa che ho fatto duecento tournée dal ’60 a oggi? Ho composto centinaia di canzoni, venduto più di cento milioni di dischi, e tutto questo svanisce in un soffio davanti alla tenerezza di una madre ritrovata, sia pure per poco».
La popolarità, oltre a molte soddisfazioni, le ha anche dato amici nuovi, come Jacques Brel. Quali sono stati gli incontri più coinvolgenti?
«Brel? Brel mi ha distrutto! Bastò una solo settimana con lui. Senta questa. Era un qualche anno degli anni Settanta. Era capitato da me in piena tournée pilotando il suo aeroplanino. Sveglia alle nove, pranzo e, dopo ogni show, notti brave con le ragazze. Lui non ne ha mai toccata una, ma offriva champagne a tutte, e beveva con tutte. Nel giro delle entraîneuses non ce n’era una in Francia che non lo conoscesse. Poi birre in camera per il resto della notte e, il mattino, alle nove in punto, la sua telefonata: allora sei sveglio? Un altro completamente matto era Bob Dylan. Suonava all’Olympia nel ’66: in camerino mi dice che al George V, dove lo avevano alloggiato, non fanno che disturbarlo e mi chiede di venire a stare da me. Così sbarca a Neuilly, sottobraccio la sua discografia completa: per tutta la notte, ogni santa notte, non ha fatto che riascoltare i suoi dischi. Tutte le notti, appena rientrato dall’Olympia. Quando mi alzavo lui andava a dormire. Poi un mattino pouf, non c’è più, sparito senza neanche un grazie. Mai più rivisto. Ma per completare il giro dei geni imprevedibili lasci che le racconti anche di Godard. In Detective , nell’85, è stato il primo a prendermi come attore e non come Johnny Hallyday: prima di Leconte, di Johnnie To, prima di Lelouch. Con lui non c’era copione: arrivava, scarabocchiava per dieci minuti e noi lì a imparare i dialoghi di corsa. Ma già i due incontri a tavola a cui ero stato invitato per l’eventuale ingaggio sono puro Godard: nel primo mi ha del tutto ignorato. Nel secondo, dopo due sogliole e un mutismo infinito, si alza e mi dice: cominciamo tra due settimane».
Lei è un monumento vivente della Francia. Le risulta?
«Essere Johnny Hallyday è un mestiere e io lo pratico seriamente. Ma quando non lavoro, torno me stesso. Dico davvero. Ho imparato a dissociarmi. In Une lettre
à l’enfant que j’étais, nata da un giornaletto in cui avevo raccolto ricordi d’infanzia,c’è questa frase: reste fidèle à qui tu es. È la più bella definizione della libertà. Perciò quando voglio sentirmi libero, anche da Johnny Hallyday, torno quel che son sempre stato, Jean-Philippe Smet: il cognome di mio padre, il nome che i miei genitori hanno scelto per me il giorno in cui sono nato».
Mario Serenellini, la Repubblica 9/8/2015