Enrico Deaglio, la Repubblica 9/8/2015, 9 agosto 2015
TI SOGNO CALIFORNIA
Dicono che sia l’estate più calda di sempre. Non piove da quattro anni, la terra riarsa si spacca e luccica di sale, i laghi sono vuoti, le acque del Pacifico sono troppo calde. Ora sono scoppiati gli incendi. Dicono che siano i preparativi dell’Apocalisse.
Eppure, questa era la Terra promessa: «E quando venne il giorno, i Joad videro finalmente, nella sottostante pianura, il fiume Colorado… Il babbo esclamò: “Eccoci! Ci siamo! Siamo in California!”. Tutti si voltarono indietro per guardare i maestosi bastioni dell’Arizona che si lasciavano alle spalle». La citazione è da Furore di John Steinbeck. Nel 1935, quando due milionate di americani, bianchi poveri in maggioranza, lasciarono le Grandi Pianure alla ricerca della mitica California, la terra dell’acqua, del latte e del miele. Dove stavano loro, il topsoil, lo strato superficiale dei campi, esausto per lo sfruttamento degli uomini, si era sollevato nella più grande catastrofe ecologica dell’era moderna, il dust bowl. Un’immensa coltre nera – che ristagnava all’orizzonte, per muoversi improvvisamente come un sicario – fece per un anno tenebra del giorno, apocalisse avvolgente degna di un dipinto di Goya. Steinbeck, per scrivere realisticamente, visse per un anno insieme a quei migranti poveri e oggetto di razzismo. Avevano perso la terra perché non avevano pagato il mutuo e le banche li avevano sfrattati. Intono al fuoco parlavano così: « Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. È il mostro. L’hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo ». Nel 1940 si fece il film, con Henry Fonda che diventò l’americano più popolare al mondo. Un proletario dagli occhi azzurri che quasi quasi diventava un bolscevico. Erano i tempi di Roosevelt che in California fece costruire le grandi dighe. Delle fotografie di Walker Evans e di Dorothea Lange, cui si deve la successiva moda dei jeans à salopette . Ottant’anni dopo, la California è pur sempre il luogo più ricco del mondo, ma il Colorado River è diventato rigagnolo e il suo fratello San Joachim conta i suoi salmoni morti. L’uomo (e le sue banche) hanno costruito il futuro radioso di Los Angeles, della Silicon Valley, dell’agrobusiness dei pesticidi e delle serre, ma la terra, adesso come ottanta anni fa, sta chiedendo il conto. Si spacca, si sgretola, muore. I meravigliosi reservoir, costruiti come templi egizi di cemento, sono ormai quasi vuoti e le turbine pompano schiuma; il riscaldamento globale porta sempre meno neve sulla Sierra; e quella neve era il principale nutrimento per il territorio californiano che, geologicamente parlando, non è altro che un enorme deserto.
Sopravviverà, la California? Se stiamo a quanto dice Hollywood, (che tende ad anticipare), non se ne parla neanche. In Interstellar è già spacciata quando i nostri eroi cercano riparo nello Spazio; in Mad
Max: Fury Road, in un deserto popolato di guerrieri suicidi, un dittatore raziona l’acqua per il popolo dall’alto di un tempio che copia la grande diga Hoover sul Colorado; in San Andreas arrivano insieme incendi, siccità, the “big one” e lo tsunami con un’onda immane che fa schiantare una nave portacontainer cinese sul Golden Gate e sommerge la città (segue lenta e dolorosa ricostruzione, come quella, guidata da un redento Clark Gable dopo il terremoto del 1906).
Strani presagi, nell’ultimo avamposto dell’occidente, da sempre fiducioso nella capacità dell’uomo di domare una natura comunque amica. Nei grandi affreschi di Diego Rivera, la California anni Trenta è una divinità sotto forma di donna monumentale ingioiellata dal grande seno che regala frutta dalle sue grandi mani; nelle tele di David Hockney, fine del Ventesimo secolo, sono colline pettinate e onnipresenti, limpide piscine dove si immergono corpi armonici. Ma questa è anche la stessa terra in cui sono state distrutte foreste immani di sequoie per costruire città di legno e una valle di seicento chilometri è diventata la maggior produttrice mondiale di frutta e verdura con il lavoro di messicani semischiavi, oltre che il califfato dei pesticidi. Los Angeles ha dieci milioni di automobili che tendono a muoversi tutte insieme; per quanto riguarda le piscine, ne conta 43mila, di cui 2.500 solo nel quartiere dei divi a Beverly Hills e zero nel ghetto nero di Watts. L’uomo, qui, è stato titano e smodato; ora si sta pentendo: ha bandito il fumo, la plastica, ha dichiarato guerra all’energia fossile e al petrolio, ma che potesse arrivare un redde rationem sull’acqua, proprio non ci aveva pensato nessuno. Si contava sulle virtù delle grandi dighe, del governo e del buon Dio.
A mettere il dito nella piaga, trent’anni prima che si parlasse dell’attuale disastro ecologico, ci era arrivato il capolavoro di Roman Polanski. La sua Chinatown (1974) si dipanava in una violenta Los Angeles, dove il possesso dell’acqua era l’origine del male. Nella scena clou un giardiniere cinese, a mollo nel laghetto artificiale di una grande villa, borbotta: “Acqua salata no buona pel elba…”, offrendo la soluzione del delitto a un distratto Jack Nicholson. Già. Chi aveva pompato acqua salata e cadaveri nell’acquedotto di Los Angeles fino a farla arrivare sulle colline a strapiombo su Malibù? Il problema dell’acqua e del sale è ritornato in forza oggi. Un po’ perché, pur di far scorrere un po’ d’acqua nei tubi, si è scoperto che lo Stato della California ha pompato acqua troppo salata dalla baia di San Francisco, con danni irreparabili; un po’ perché i cervelloni della Silicon Valley non riescono a desalinizzare l’oceano Pacifico, le cui onde si infrangono a dieci metri dalle loro ville. Sono bravi a far twittare ogni giorno un miliardo di persone centoquaranta caratteri di stupidaggini, ma non hanno una app per togliere il sale dall’acqua di mare. Ci sono due esperimenti in corso (uno a San Diego, uno a Monterey), ma i costi di pompaggio e filtraggio sono enormi, e quelli dello smaltimento del sale marino accumulato – se lo si vuole fare in sicurezza ecologica – ancora di più.
In assenza della salvezza data dalla tecnologia, in casi di siccità in genere si invoca Dio. Nelle manifestazioni dei contadini degli anni Sessanta, il grande sindacalista messicano César Chávez apriva i cortei con lo stendardo della Vergine di Guadalupe; ancora oggi nella Central Valley, dove si estirpano centinaia di ettari di mandorleti ormai seccati, i braccianti sono ripresi dalle televisioni in ginocchio a pregare Dio. «Agua! Basta ya!»; il governo (dove siede quel comunista di Obama) viene accusato di usare la poca acqua per proteggere i salmoni del San Joachim River piuttosto che il posto di lavoro dei braccianti. «I braccianti votano», spiegano alle telecamere, «i salmoni no». Non ci sono però invocazioni a papa Francesco, né suoi ritratti. La sua enciclica sulle responsabilità dell’uomo nei confronti della natura sembra fatta apposta per non piacere ai padroni dell’acqua da queste parti. Compresa la postilla sul fatto che i disastri naturali alla fine li pagano i poveri.
È strana, questa estate dei record. Ambigua, senza colpevoli. Di chi la colpa se il Pacifico davanti al Perù è quattro gradi più caldo di quanto dovrebbe? Il governatore Jerry Brown ha ordinato di ridurre almeno del dieci per cento il consumo d’acqua e la popolazione ha risposto bene. Sul sito del quartiere ci scambiamo idee sul risparmio, che poi sono sempre le solite (e chi viene dalla Sicilia le conosce bene). Mettere la bacinella (purtroppo di plastica) sotto il getto della doccia e usare quell’acqua per bagnare le piante. Chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti. Per quanto riguarda il water, si torna al vecchio e volgarotto: If it is yellow, let it mellow... Lavare meno l’auto. Nei ristoranti l’acqua la devi chiedere, non te la portano più. La bolletta è salita. Avocado, pomodori, pesche, costano più cari. Sugli scaffali c’è un’invasione di acqua minerale italiana. Ha fatto un po’ scandalo Tom Selleck, a Los Angeles, che si attaccava alla cisterna pubblica per rubare l’acqua e annaffiare il suo ranch. Sì, proprio lui, Magnum PI. Quello che adesso fa il capo della polizia di New York in una serie tv. Siamo in guerra, ma forse un nemico sta emergendo. L’agrobusiness. Le notizie circolano sui social. L’agrobusiness consuma l’80 per cento dell’acqua della California. Un milione di ettari è coltivato ad “alfalfa”, un’erba pregiata che viene venduta ai cinesi e agli sceicchi di Dubai, succhia tutta l’acqua e manda profitti solo a loro. E le mandorle? Lo sai quanta acqua ci vuole per far maturare una singola mandorla? Ce ne vogliono quattro litri. E per fare un hamburger? Da domani solo pollo, che ne consuma la metà.
Soluzioni? Il governatore ha sottoscritto un patto con i grandi proprietari della Central Valley per una riduzione del 25 per cento del consumo di acqua. Il risultato è che ogni settimana sparisce il mandorleto di un piccolo proprietario e si salvano quelli immensi, che possono gestire pozzi privati. Il secondo risultato è che i prezzi al supermercato salgono. Il terzo è che si affacciano con un po’ più di coraggio i coltivatori biodinamici, con i loro pomodori piccoli e sgraziati, ma finalmente saporiti.
Siamo in guerra. Fine del verde pubblico. Alla mia fermata del bus c’era un triangolo verde con gerani e oleandri. Sono stati sostituiti da piante grasse. “Brown is the new green” è scritto sul cartello. Ci messicanizzeremo. Il verde pubblico non è più previsto. Però, per adesso, davvero non c’è nulla di tragico o di epico. E poi contiamo in El Niño, che peraltro vuol dire il Bambin Gesù. Ogni giorno ci dicono che il fenomeno prende forza, che le acque calde dell’oceano lo renderanno minaccioso, con terribili uragani. E però, un po’ ci fa piacere, perché almeno si riempiranno i reservoir. A questo siamo ridotti, noi borghesi, ottant’anni dopo quei morti di fame portati dal dust bowl. Per quanto riguarda i braccianti, fanno quello che hanno sempre fatto. Comprano l’acqua potabile allo spaccio del padrone.
Enrico Deaglio, la Repubblica 9/8/2015