Francesco Alberti, Corriere della Sera 8/07/2015, 8 luglio 2015
DAI TUMULTI DEL ’77 ALL’ABBRACCIO DI PERTINI ADDIO A ZANGHERI, IL SINDACO PROFESSORE
DAL NOSTRO INVIATO BOLOGNA Cartolina numero uno. «Zangherì, Zangherà: zangheremo la città»: gli indiani metropolitani misero in strofa il suo nome in quel sanguinoso marzo 1977 che lasciò sull’asfalto Francesco Lorusso, spiazzò un Pci tanto solido quanto lento nel cogliere le scintille del disagio giovanile, mentre i mezzi blindati dell’allora ministro degli Interni Cossiga sferragliavano in via Zamboni sotto gli sguardi stralunati dei bottegai bolognesi. La «vetrina» dell’Emilia rossa pareva a un passo dall’andare in frantumi. E se non ci andò, se la frattura generazionale venne gradualmente ricomposta, elaborata all’interno di una logica fatta di strategie sociali, il merito fu soprattutto suo: di Renato Zangheri, sindaco comunista per 13 anni (1970-1983), professore di storia economica prestato alla politica, protagonista di quella filiera «rossa» di amministratori comunisti (assieme a Dozza, Fanti e Imbeni) che ancor oggi occupa un posto speciale nella memoria collettiva dei bolognesi. Cartolina numero due. La mano dell’allora capo dello Stato, Sandro Pertini, vicina alla sua, entrambe appoggiate sul Tricolore: è il 6 agosto 1980, Zangheri parla tra le macerie a una folla senza parole, a una città stordita e impaurita dalla bomba di pochi giorni prima alla stazione, gridando un «no» forte e rabbioso contro il terrorismo di qualunque colore, lui che già nel 1974 aveva guardato negli occhi i familiari delle vittime dell’Italicus a San Benedetto Val di Sambro e quelli, nel giugno, sempre dell’80, del disastro di Ustica.
Zangheri se n’è andato ieri, a 90 anni. Uomo delle istituzioni. Comunista riformista. Di quel comunismo all’emiliana che, al netto di sociologi e studiosi, i vecchi del Partito hanno sempre racchiuso in una formula che ha del formidabile: «Il capitalismo fatto da noi…». Marxista, Zangheri. «Oxfordiano» nell’estetica. Portatore di un’ironia lieve, ma che poteva pungere. Come quella volta, come amava ricordare Edmondo Berselli, che così fulminò gli intellettuali del Mulino: «Voi sapete tutto dei puritani del Massachusetts e niente delle mondine di Molinella». Aveva l’autorevolezza cucita addosso. È stato primo in tante cose. Primo assessore alla cultura di una città italiana (nelle giunte Dozza e Fanti) in un periodo in cui il sapere veniva considerato una sorta di sottotitolo della politica. Primo sindaco (e siamo nel 1982) ad aprire un canale di dialogo con un circolo gay, concedendo uno spazio pubblico al Cassero.
Il nome Zangheri è spesso associato al termine «buongoverno». Che sia un automatismo della memoria o un dato oggettivo, lo dirà la storia. Certo è che Bologna, dopo Dozza e Fanti, fece sotto la sua guida l’ennesimo salto: welfare (asili e sanità) e un decentramento a misura di cittadino furono i punti di forza di quella «vetrina rossa» divenuta modello nazionale. Nel 2005 lo proposero per l’Archiginnasio d’oro, il più alto dei riconoscimenti. Ma lui si tirò fuori così: «Fui io a istituire quel premio negli anni Sessanta: non mi sembrerebbe di buon gusto riceverlo». Oggi Bologna è listata a lutto: camera ardente a Palazzo d’Accursio e funerali privati. Un diluvio di messaggi. Dal presidente Mattarella («Scompare un protagonista della storia della Repubblica»), al premier Matteo Renzi («Uomo retto e diretto, simbolo di una stagione difficile»), passando per l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, l’ex premier Romano Prodi e Massimo D’Alema (che di Zangheri sottolinea il tratto distintivo: «Fu un importante esponente della cultura del comunismo italiano»).