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 2015  luglio 01 Mercoledì calendario

MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

Si dice Cloaca Maxima e si pensa alla madre di tutte le fogne: un tunnel gigantesco scavato nel sottosuolo di Roma per accogliere e far defluire verso il Tevere i rifiuti di una città che all’apogeo dell’impero, nel secondo secolo dopo Cristo, contava più di un milione di abitanti. Ma l’origine della Cloaca è molto più antica e le funzioni per cui fu creata erano molto diverse da quelle di una fognatura. La sua storia corre parallela a quella della città. È Livio a raccontarci come la monumentale opera ipogea fosse stata progettata da Tarquinio Prisco, duecento anni dopo la fondazione dell’Urbe e cinquecento prima di Cristo, e poi completata da Tarquinio il Superbo. Scopo: smaltire le acque che si raccoglievano nella valle paludosa del Foro Romano, essendo già nota la correlazione tra acque stagnanti e malaria. Plinio il Vecchio ne sottolineava la magnificenza, elogiando la robustezza dei suoi canali, scavati nel sottosuolo e talmente ampi che Agrippa li percorreva in barca. Dionigi di Alicarnasso ne parlava come di un’opera meravigliosa, paragonandola agli acquedotti e alle grandi strade lastricate. Ancora nel medioevo, le guide per i pellegrini l’annoveravano tra i «mirabilia urbis». In epoca rinascimentale e barocca suscitò la curiosità di molti artisti, tra cui Domenico Crespi e Ludovico Carracci, che la rappresentarono nei propri dipinti, soprattutto in quelli dedicati a san Sebastiano, il cui corpo, secondo la tradizione agiografica, dopo essere stato trafitto dalle frecce fu gettato nella Cloaca Maxima come segno di massimo disprezzo. E la stessa fine subirono altri martiri cristiani, considerati alla stregua di rifiuti sociali da smaltire nelle fogne. Perché nel frattempo la Cloaca era diventata il grande collettore fognario della città, il «receptaculum omnium purgamentorum urbis», come scrive Livio, il recipiente di tutte le immondizie. Col passare dei secoli la Cloaca fu dimenticata, intasata in molti punti dagli ingenti depositi di limo accumulatisi con le frequenti piene del Tevere. Si cominciò a riscoprirla e a rimetterla in uso alla fine dell’800. Gli scavi sono ripresi intorno al Duemila e i risultati di questi lavori, portati avanti dalla Sovrintendenza capitolina alla cultura, dall’Istituto nazionale di studi romani e dall’Acea, si possono leggere nel bel volume curato da Elisabetta Bianchi: «La Cloaca Maxima e i sistemi fognari di Roma dall’antichità ad oggi». Edito da Palombi, il libro raccoglie anche moltissime foto e disegni. Bianchi, da due anni responsabile della Cloaca, racconta che la sua passione per le fognature risale al 1986, quando, ancora studentessa, le capitò di scavare il reticolo di canalette nell’area della Meta Sudans, l’antica fontana davanti al Colosseo: «Mi resi conto di essere di fronte alla parte più nascosta dell’arte di costruire dei Romani, certamente quella meno nota, in molti casi la più conservata e la sola che in qualche modo potesse condurre a disegnare la forma degli edifici soprastanti ormai scomparsi o illeggibili». Nel 2006 l’archeologa propose di liberare dai depositi le canalette del circuito fognante a ridosso del Foro di Augusto e ne estrasse alcuni reperti eccezionali, tra cui il ritratto dell’imperatore Costantino. Racconta di essere scesa nella Cloaca Maxima almeno sessanta volte, accompagnata dagli speleologi dell’Associazione Roma Sotterranea che organizzano visite guidate anche per il pubblico: «L’emozione e l’entusiasmo si rinnovano ogni volta nell’esplorazione dei vari tratti, osservandone le tecniche costruttive, i materiali. Quasi sempre rimanendo schiacciati dal senso di potenza e di incorruttibilità che il monumento impone a chi lo penetra. E senza riuscire ad abituarsi al frastuono generato dal continuo scorrere dell’acqua».
Lauretta Colonnelli