Laura Laurenzi, la Repubblica 8/8/2015, 8 agosto 2015
“IL NUOTO È COME LA MUSICA”
[Intervista a Claudio Baglioni] –
Che cos’ha in terrazza, ai Parioli, nel suo sontuoso attico e superattico con vista sulla cupola di San Pietro, Claudio Baglioni? Una bella piscina rettangolare modello Hollywood. «Il nuoto è musica, è pensiero, è rapsodia dei corpi. E l’acqua è il giocattolo più bello che abbiamo a disposizione, un vero parco giochi». A 64 anni Baglioni ha l’elasticità dell’ex atleta. «Il nuoto è una simulazione del sogno di sempre, che è quello di volare. Siccome volare non sappiamo e forse non sapremo mai, l’acqua ci offre questa possibilità: imitare il volo. Il nuoto per me è legato curiosamente all’idea del silenzio. Per questo mi piace, oltre che nuotare, il mare di profondità: fare immersioni, l’unico modo per sentire i suoni di dentro. Ho molto nuotato, sin da bambino: non sono veloce ma sono resistente, un diesel, percorro a bracciate fino a cinque-sei chilometri al giorno».
Scrisse Melville che “meditazione e acqua sono sposate per sempre”: nuotando si medita, si intuisce, si crea? «L’esercizio che fai nell’acqua è una cadenza ritmica. È proprio nuotando, è proprio immergendomi completamente in me stesso che mi vengono in mente ritmi e melodie. Ma c’è grande differenza fra il nuoto che si fa in piscina – conosco bene il sacrificio, la noia, la ripetitività di fare su e giù cento volte – e il cosiddetto nuoto di svago, quello che io oggi preferisco, nei lunghi bagni che faccio ogni estate a Lampedusa».
Non è un caso che Baglioni sia stato scelto per comporre l’inno di ben due Mondiali di nuoto: il primo nel ‘94, titolo Acqua nell’acqua , il secondo nel 2009, Un solo mondo , dove si canta “il soffio delle apnee” e si evoca “il brivido dell’infinito”, la sfida al “turbine del grande abisso”, il movimento di “gambe forti come pale”, “petti gonfi come suoni”, “braccia grandi come ali”. Ed è fatto d’acqua, di mare, di sabbia e salsedine l’habitat in cui prende corpo con i suoi palpiti.
Questo piccolo grande amore, il brano che nel ‘72 dette a Baglioni la notorietà, votato molti anni dopo come “la canzone del secolo”, due milioni di copie vendute. È tutto un “chiare sere d’estate il mare i giochi le fate” che fa rima con “un bacio a labbra salate” premendo sul lieto fine: “far l’amore giù al faro”. È passato tanto tempo, e c’è un ombra di malinconia nello sguardo del cantautore: «Ovvio. L’amore romantico è legato tantissimo al mare, all’idea di sabbia, al bagnasciuga. Il mare è anche erotico, al mare si va con meno abiti, prefigurando un flirt, il faro è luogo da dichiarazione d’amore per eccellenza, o oggi diremmo luogo del primo rapporto».
Il nuoto del cuore dunque, intimista, e quello, faticoso se non massacrante della competizione: «Lo sport deve lasciare tracce indelebili, nel senso che ci regala quella categoria dei miti, dei supereroi, dei semidei che è utile a farci sognare e ad alimentare leggende. Ma poi in generale ha un altro grande merito in un’epoca in cui la televisione ha stabilito che la mediocrità ti può portare al successo. Nello sport no, nello sport la mediocrità non vale: nello sport se ti sacrifichi, se ti alleni, se sei serio e severo con te stesso puoi essere premiato da grandi risultati. È la meritocrazia sana, legata terribilmente a un cronometro, a una lunghezza, a una performance, al fatto che arrivi prima di un altro, che resisti più di un altro».
Cosa guarda Baglioni in TV?
«Ne guardo troppa, sono uno che fino a nove anni non aveva la tv in casa, essendo la mia una famiglia modesta. Oggi vorrei disintossicarmi».
Viene spontaneo chiedergli, lui che si è battuto a favore dei migranti, quali sensazioni gli dia nuotare in acque in cui sono annegati tanti disperati.
«Fu anche per aiutare questa povera gente che tredici anni fa creai l’appuntamento, la rassegna musicale O’ Scià, che nel dialetto di Lampedusa è il più affettuoso e il più carezzevole dei saluti che tu possa fare a un amico, a un fratello, a un altro essere umano: vuol dire mio respiro. Creai questa manifestazione non per impegno sociale e civile o di protesta, ma per un senso di colpa che veniva dall’idea di fare le vacanze in un posto così bello con un mare meraviglioso sapendo che a poca distanza si consumavano viaggi disastrosi o addirittura lutti e tragedie. Abbiamo registrato uno dei più clamorosi deficit di intervento della classe politica italiana, europea, mondiale, un disinteresse, un’incapacità colossali O’ Scià voleva denunciare l’illegalità e la disumanità di questi viaggi e ricordare che il problema era ed è – da un quarto di secolo – serio e grave. Si è perso tempo e oggi l’opinione pubblica si è enormemente incat-tivita: oramai il bubbone è scoppiato. Quanto a O’ Scià, tre anni fa lo abbiamo chiuso perché sono venuti a mancare alcuni sostegni dalla Regione. Evidentemente ci sono cause che non portano consenso».
Poche vacanze a Lampedusa, comunque, questa estate. Giù in strada, al volante di una lucida berlina c’è il fido Sandrone, autista, factotum e guardaspalle che lo aspetta per condurlo in una sala di registrazione a piazza Euclide a provare Capitani coraggiosi, il concerto in tandem col sempreverde Gianni Morandi che debutta il 10 settembre al Foro Italico.
«Più che Capitani Coraggiosi lo chiamerei Il pupo e il secchione, dove io, metodico, preciso, perfezionista, sono il secchione, e lui è il pupo, un artista istintivo che ama improvvisare. Siamo il sole e la luna».
Avete già litigato?
«Litigato no, discusso sì».
«Ho sempre abitato in periferia, a Montesacro, a Centocelle, al Prenestino; i Parioli sono sempre stati un mito. Ricordo quando ero ragazzino c’era una sorella di mio padre che faceva la cameriera qui nei quartieri alti e qualche volta, quando i padroni (dice proprio così, i padroni ndr ) erano via, ci portava in pellegrinaggio a vedere com’erano fatte le case dei ricchi, lei ne aveva cambiate tre o quattro. Io restavo a bocca aperta nel visitare certi appartamenti con tutte quelle stanze e magari quattro o cinque bagni, e una grande camera solo per la lavanderia e per stirare. Capirai, noi abitavamo in due stanze. Oggi qualche amico mi dice: i Parioli non sono un quartiere per artisti. E io rispondo: che mi frega? Qui ci sono le case di chi ha avuto successo. E siccome io ho avuto successo, qui mi trovo benissimo».
Va in giro senza soldi, lui che ne ha guadagnati e ne guadagna moltissimi:
«Lo sai che fatico a conoscere l’euro? (tanto c’è Sandrone)».
Lontani i tempi eroici ma anche grami del debutto, quando lo chiamavano di soprannome Agonia: «Perché? Ero sempre vestito tutto di nero, certi occhiali spessi così, sempre pallidissimo e pensoso e cercavo di darmi arie da esistenzialista. Avevo 17 anni ed ero l’unico degli amici al bar che faceva lo studente; gli altri lavoravano tutti e ognuno aveva il suo soprannome; il sorcio, il volpe, il secco, il mastino, e anche il galleggiante, che faceva l’idraulico».
Laura Laurenzi, la Repubblica 8/8/2015